Dopo il discorso all’Onu Ahmadinejad torna in Iran con la coda tra le gambe
29 Settembre 2009
di Abbas Milani
Mahmoud Ahmadinejad è tornato a New York la settimana scorsa, per il suo quinto annuale “pellegrinaggio” all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. In passato, la teatralità di Ahmadinejad, accuratamente dosata, prima e durante i suoi viaggi (comparabile soltanto a quella del suo amico del cuore Hugo Chavez, o all’altrettanto deludente, sedicente messia, Moammar Qaddafi), concentrava tutta l’attenzione sull’avventurismo nucleare del regime di Teheran, o sulla sua vergognosa negazione dell’Olocausto e di Israele “estirpato dalle carte geografiche”. Le sue disinvolte affermazioni dal forte impatto mediatico sono state trasmesse e ritrasmesse con stupefacente ripetitività. I giornalisti, a parte sporadiche eccezioni, evitavano di porgli più specifiche domande sulla crisi dell’economia in Iran e la piaga dei prigionieri e delle minoranze politiche.
L’attenzione suscitata, pari a quella di una “rockstar”, ha nutrito – anzi, ha aumentato – l’appetito narcisista di Ahmadinejad verso l’occhio fisso delle telecamere. Le sue storie inventate durante ogni viaggio – che Allah gli ha offerto un bozzolo protettivo durante il discorso alle Nazioni Unite, o che i bambini americani gli hanno gridato parole di sostegno per le strade di New York – in passato sono stata astutamente diffuse in Patria al suo ritorno, per essere consumate e apprezzate nelle strade iraniane e del mondo musulmano. Ad esempio, dopo la sua apparizione alla Columbia University nel 2007, i giornali ufficiali e semi-ufficiali del regime accolsero con entusiasmo l’“eroico” e “civile” comportamento del presidente, tanto da guadagnarsi anche le lodi dello schieramento riformista che oggi lo contrasta.
Ma questa volta, Ahmadinejad è andato in America non come un affascinante capopopolo o come un’attrazione divertente, quanto piuttosto come un despota insignificante. La battaglia condotta dal popolo iraniano per dichiarare nulla l’elezione presidenziale dello scorso 12 giugno, e la conseguente brutalità della repressione condotta dal regime, hanno fatto a pezzi l’immagine del presidente, riducendola al ruolo di un inetto. La sua pretesa assoluta di rappresentare l’Iran continua a essere rifiutata con ostinazione da un numero sorprendentemente grande di iraniani così come dai principali chierici sciiti.
L’ayatollah Hossein Montazeri, il più importante dissidente religioso in Iran, ha chiesto agli altri leader religiosi di restare accanto al popolo iraniano nella sua lotta contro il regime. E’ in gioco nient’altro che il futuro dell’Iran, ha detto. Già molti ayatollah in Iran, e almeno uno in Libano, hanno dato ascolto all’appello di Montazeri. L’imbarazzo dei processi farsa in stile sovietico, dibattimenti in cui gli ex sostenitori del regime sono stati obbligati a confessare in modo comico cospirazioni inverosimili – per esempio l’accusa di un complotto teso all’insegnamento di Max Weber e Jorgen Habermas nelle università – hanno svelato le pretese di Ahmadinejad di rappresentare una nazione unita, sfidando la volontà degli Stati Uniti e delle Nazioni Unite.
Il viaggio della scorsa settimana in America, dunque, è stato diverso. Sia i media iraniani che americani lo hanno ignorato – la peggiore punizione per un narcisista insicuro come Ahmadinejad – o gli hanno posto domande dure che hanno reso più difficile nascondersi dietro la tipica e infida arroganza del presidente. La domanda di Katie Courie sulla morte di Neda Agha Sultan durante i disordini del dopo-elezioni gli ha messo i bastoni fra le ruote e lo ha costretto a cambiare il soggetto del suo discorso.
In passato, i giornalisti erano preoccupati dal fatto di non poter entrare in Iran se avessero posto domande controverse al suo presidente; come la Russia di oggi e l’Unione Sovietica prima di questa, il regime clericale di Teheran ha imparato perfettamente l’arte di usare i visti d’ingresso come un incentivo per auto-cautelarsi (se non addirittura la censura). Ma ora che la maggior parte dei giornalisti sono stati comunque cacciati dall’Iran, la tattica sembra non funzionare più.
Inoltre, questa volta i cittadini di New York, così come gli iraniani da ogni parte della Diaspora, si sono incontrati intorno alle Nazioni Uniti e all’hotel di Ahmadinejad per dimostrare contro l’elezione fraudolenta che gli ha regalato il suo secondo mandato. Le numerose migliaia di persone che hanno protestato contro di lui – come la presenza di così tanti iraniani vestiti di verde fra la folla – hanno messo un gelo senza precedenti su tutto quello che di solito serve ad Ahmadinejad per i suoi viaggi trionfalistici. Stavolta sono mancati persino gli inviti da parte di associazioni come il Consiglio delle Relazioni Estere (CFR) e il Consiglio Mondiale delle Chiese (WCC) che in passato hanno accolto il presidente iraniano.
Una simile accoglienza rende più difficile per i leader delle democrazie occidentali, soprattutto per l’amministrazione Obama, ignorare l’opposizione iraniana e offrire al regime il “grande scambio” di cui l’Iran ha un tremendo bisogno. La dichiarazione di Obama alle Nazioni Unite per cui le persone di ogni parte del mondo devono avere il diritto di determinare il proprio futuro, e l’affermazione del presidente russo per cui il suo paese potrebbe essere disposto ad unirsi al mondo per isolare il regime iraniano, sono segni importanti di una profonda trasformazione. (Il sostegno da parte della Russia è probabilmente l’elemento più importante della falsa certezza del regime iraniano secondo cui il mondo non sarà mai unito per forzare Teheran ad accettare la volontà del popolo). La sala mezza vuota dove Ahmadinejad ha tenuto la sua lunga declamazione alle Nazioni Unite è stata un’altra indicazione della nuova realtà.
La fredda accoglienza negli Stati Uniti non è passata inosservata in Iran. Solitamente il ritorno del presidente dall’annuale pellegrinaggio alle Nazioni Unite è accompagnato da una campagna di propaganda che descrive il suo valoroso successo, dinanzi all’“arroganza del mondo” e in difesa di quello Musulmano. Questa volta, però, ignorato dai media, Ahmadinejad è tornato a casa mentre si scopriva che il suo regime ha, di nuovo, mentito al resto del mondo sul suo programma nucleare.
Nel giorno del ritorno di Ahmadinejad, i media del gruppo Fars Press ha sbandierato come titolo di apertura un articolo del Washington Post, a firma di David Ignatius (in cui Ignatius descrive il presidente come un uomo pericoloso che crede di essere il salvatore del mondo), sostenendo che Ignatius stava celebrando Ahmadinejad come un sincero rivoluzionario intento a cambiare il mondo. la verità è che il meglio che possono fare i media controllati dal governo è illustrare rigidamente la nuova realtà che Ahmadinejad si trova ad affronta a casa.
Traduzione di Gaia Pandolfi
Tratto da New Republic