Dopo il Kosovo la Nato non dimentichi il Darfur
03 Marzo 2008
Le analogie storiche sono sempre imperfette anche se talvolta appaiono necessarie. Ci sono molti paralleli tra il Kosovo e il Darfur, la regione occidentale del Sudan. Due regioni insanguinate da una guerra civile a sfondo etnico e religioso. Due popoli che si sono ribellati a un governo centrale considerato oppressivo e tirannico. Due Stati, il Sudan e la Serbia, che hanno scelto di combattere la guerriglia perseguitando la popolazione civile e violando i diritti umani. Le Nazioni Unite chiesero a Milosevic di fermare la pulizia etnica. Il presidente serbo non lo fece. Oggi la stessa richiesta viene fatta al presidente al-Bashir, ma i ribelli e gli abitanti del Darfur continuano a morire.
Il governo di Khartoum ha sempre giocato una partita diplomatica ondivaga con la comunità internazionale. Un atteggiamento fatto di promesse non mantenute e pericolose relazioni con il terrorismo islamico. Nel 2006 le Nazioni Unite avevano promesso di rafforzare il contingente africano presente in Sudan (la Risoluzione 1706 del Consiglio di sicurezza) ma sono arrivati un terzo degli uomini previsti e i caschi blu non riescono a fermare le violenze. Bashir rifiuta l’invio di un contingente internazionale formato da militari non africani e brandisce la Carta dell’ONU per difendersi da ogni ingerenza esterna, proprio come faceva Milosevic.
Come ha scritto il New Republic, Bush o il prossimo presidente degli Stati Uniti devono salvaguardare la credibilità della Nato risolvendo una volta per tutte la questione del Darfur. Non sappiamo ancora se il Kosovo diventerà un modello di coesistenza e integrazione pacifica tra civiltà diverse, ma dieci anni fa i kosovari albanesi piangevano le vittime della guerra civile, Milosevic si esercitava con la pulizia etnica e l’Uck metteva a ferro e fuoco la regione, in un crescendo di violenze. La Nato intervenne bombardando Belgrado e costrinse la Serbia a ritirare le truppe dal Kosovo. Nel frattempo venivano disarmate le milizie dell’Uck. Oggi i kosovari festeggiano in piazza l’indipendenza.
Anche le popolazioni del Darfur stanno chiedendo aiuto. Nel Sudan s’incontrano civiltà diverse, quella araba, quella africana, le minoranze animiste e cristiane che vivono nelle regioni meridionali del Paese. Questa mescolanza ha generato una carneficina determinata da rivalità etniche e tribali, ma anche dagli interessi economici legati all’estrazione del petrolio. Se guardiamo alla composizione etnica del Darfur, gli animisti e i cristiani sono solo una parte della popolazione. La maggioranza è musulmana: la minoranza araba si è imposta con la violenza sul resto della popolazione nera e africana. Secondo le stime fatte dall’Onu, le vittime della guerra civile sono centinaia di migliaia. Gli Stati Uniti lo hanno definito un genocidio.
l problema non è soltanto quello del regime sudanese – la distruzione dei villaggi, la fuga dei sopravvissuti verso i campi profughi del Ciad e delle nazioni africane confinanti. C’è anche l’estremismo jihadista che, da queste parti, ha un solo nome: Hassan Al Turabi, il chierico sunnita caduto in disgrazia dopo aver dato ospitalità alla carovana di Al Qaeda. Negli anni Novanta Turabi voleva trasformare il Sudan, un Paese in bancarotta, periferico e soltanto in parte musulmano, nello stato-guida dell’integralismo islamico. Dalla fine degli anni Settanta il governo aveva imposto in tutto il Paese la sharia, la legge islamica. Turabi e i suoi allievi avevano studiato in Occidente ma disprezzavano tutto ciò che l’Occidente rappresenta. Dopo aver favorito l’ascesa al potere dell’attuale presidente Bashir, e aver creato il Fronte Islamico Nazionale (NIF), Turabi si accorse che per realizzare i suoi piani aveva bisogno di un vero finanziatore.
Così accolse i veterani afgani di Bin Laden, ma anche gli esponenti di Hamas e della Jihad islamica palestinese, di Gama al’Islamiyya e del Jihad egiziano, le guardie rivoluzionarie dell’Iran e gli estremisti algerini, libici, eritrei, etiopici, tunisini e ugandesi, offrendogli un porto sicuro e una base per colpire l’Arabia Saudita e i Paesi del Golfo, il Corno d’Africa e l’Egitto. Turabi iniziò ad addestrare la Forza di Difesa Popolare (FDP) destinata a reprimere nel sangue la guerra civile.
Dal 1993 il Sudan è nell’elenco degli “stati canaglia”, i Paesi che gli Stati Uniti giudicano sponsor del terrorismo. Nel 1995 Turabi organizzò il secondo summit della Popular Arab Islamic Conference e il (fallito) attentato al presidente egiziano Mubarak, uno dei maggiori alleati di Washington. L’attentato provocò la reazione sdegnata delle Nazioni Unite che fino al 2001 hanno sottoposto il regime di Khartoum a pesanti sanzioni internazionali.
Nel 1996 Turabi si accorse che l’amicizia con Bin Laden stava diventando ingombrante, l’ideologia salafita era troppo estrema anche per un radicale come lui. Khartoum cercò disperatamente di tenere aperti dei canali diplomatici segreti con Washington promettendo importanti rivelazioni sui piani di Al Qaeda, ma il 20 agosto del 1998 Bill Clinton ordinò una rappresaglia missilistica sulla periferia di Khartoum, accusando il Sudan di aver favorito gli attentati alle ambasciate americane dell’Africa Orientale. Turabi perse la sua egemonia e finì in galera. Il presidente Bashir comprese che il petrolio era l’unica arma rimasta per trattare con l’Occidente, e così, dopo l’11 Settembre, il Sudan riprese a collaborare con gli Stati Uniti promettendo ancora una volta di interrompere la guerra civile.
Torniamo al Kosovo. Prima che l’Occidente scegliesse di usare la forza per piegare Belgrado c’era il rischio concreto che l’Uck si radicalizzasse trasformando la provincia serba in uno dei fronti dell’internazionalismo jihadista. Gli Stati Uniti e l’Europa hanno rimediato a questa evenienza innescando un (lungo) processo di democratizzazione che poi è sfociato nell’indipendenza, controllata, del Kosovo.
Oggi lo stesso scenario si ripete in Darfur. Nel 2001 il presidente Bashir aveva accettato il piano proposto dalla Libia e dall’Egitto per fermare la guerra civile e l’anno successivo il governo di Khartoum decise di sottoscrivere un piano con l’Esercito di Liberazione del Sudan (Spla) che prevedeva un referendum per l’indipendenza del Sudan meridionale. Il referendum avrebbe dovuto svolgersi proprio nel 2008 ma i negoziati sono stati interrotti più volte, fino a quando, nel 2005, il leader indipendentista John Garang ha perso la vita in un misterioso incidente aereo. Da allora il dialogo interetnico si è interrotto e Bashir ha ripreso a sfidare la comunità internazionale.
Sempre nel 2001 Turabi è stato arrestato per aver firmato un accordo con i ribelli del Justice and Equality Movement (Jem), un gruppo islamico radicale che combatte contro le milizie Janjaweed fedeli al governo, colpendo i pozzi petroliferi dei cinesi. Ironia della sorte, gli integralisti islamici accusano la Cina di violare i diritti umani. Se questi gruppi riprendessero il sopravvento il Sudan sprofonderebbe nel crudele isolamento di dieci anni fa.
Nel 1996 l’ambasciatrice americana alle Nazioni Unite, Madeleine Albright, descrisse il Sudan come “un covo di vipere del terrorismo”. Era il punto di vista dell’allora consigliere per la sicurezza nazionale Samuel Berger, del coordinatore dell’antiterrorismo Richard Clarke, e della energica direttrice dell’Ufficio degli Affari Africani Susan Rice. Oggi il Sudan non è più una tana di Al Qaeda, anche se Osama Bin Laden si è rifatto vivo nel 2006 per rivendicare questo pezzo di Califfato.
Per evitare brutte sorprese i governi occidentali devono ascoltare la voce di quella eterogenea alleanza che si batte da anni per interrompere i massacri in Darfur. Una coalizione trasversale fatta di attivisti cattolici e militanti della destra evangelica americana, gruppi che si battono per i diritti umani e per i diritti delle donne, associazioni antisegregazioniste e umanitarie. Come disse la poetessa afroamericana Maya Angelou subito dopo l’11 Settembre: “Siate arrabbiati. Fa bene essere arrabbiati. È sano”.
Lo scorso aprile, a Roma, il gruppo Italian Blogs for Darfur ha organizzato il primo Global Day for Darfur che nel resto del mondo è già alla terza edizione. Qualcosa si sta muovendo. Nel 2005 il Congresso degli Stati Uniti ha proposto una bozza di legge che chiede al governo americano di fermare il genocidio in Darfur usando le truppe Nato e la copertura legislativa delle Nazioni Unite. Se la situazione si sbloccasse, e la Nato fosse chiamata a svolgere un ruolo simile a quello avuto in Kosovo, l’opinione pubblica internazionale potrebbe appoggiare l’intervento.