Dopo il voto Onu contro Israele non si può più credere al “processo di pace”

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Dopo il voto Onu contro Israele non si può più credere al “processo di pace”

05 Gennaio 2017

Dopo l’ennesima risoluzione Onu contro Israele, sponsorizzata sottobanco dagli Usa di Obama, la domanda è: davvero qualcuno nelle cancellerie occidentali, e in particolare a Washington, ritiene che si possa fare a meno dell’alleanza con Gerusalemme? E quale sarebbe il piano alternativo alla “relazione speciale” che ha contraddistinto i rapporti tra Usa e Israele negli ultimi decenni? Di alternative non si vede neanche l’ombra, a meno di non ricadere nella boutade del “processo di pace”, la “soluzione dei due stati”, quella evocata da Barack Hussein nel celebre discorso all’università del Cairo, A New Beginning, il nuovo inizio, le primavere arabe che poi sono finite nel sangue oltre che rivelarsi un fallimento epocale.

In realtà il negoziato sui “due stati”, che risuonerà altisonante anche alla prossima conferenza di pace a Parigi, si è ridotto con il passar del tempo a qualcosa che va avanti per inerzia, senza produrre mai risultati concreti. Né Arafat, che nel 2001 rifiutò gli accordi di Camp David, né tantomeno i suoi successori, che hanno bocciato la proposta del premier Netanyahu di uno stato che rinunciasse all’importazione di armi, sono riusciti a garantire il monopolio della forza nei territori palestinesi. L’escalation di attacchi e attentati contro gli ebrei non è stata evitata, e figuriamoci se l’ANP poteva essere in grado di controllare Hamas, una organizzazione di stampo terrorista ben radicata e collegata alle centrali dell’odio antisemita, da quando è salita al potere a Gaza.

Più che per meriti politici propri, dunque, l’Autorità Palestinese è andata avanti grazie agli strappi che la cosiddetta comunità internazionale le ha garantito, come il riconoscimento unilaterale dello Stato di Palestina avvenuto alle Nazioni Unite nel 2012. Ma neanche questo è servito a sbloccare il processo di pace.  La “soluzione dei due stati” andrebbe quindi smitizzata una volta per tutte, smettendola di credere che sia esclusivamente la questione degli insediamenti israeliani a impedire che si raggiunga un accordo.

Oggi in Israele si discute animatamente del sergente Elor Azaria, 19 anni, accusato dell’omicidio di un palestinese. In un Paese democratico c’è posto per prese di posizioni politiche diverse, il rispetto della giustizia da una parte e la rabbia per l’accusa, pesante ma motivata, rivolta a un giovane soldato che come tanti suoi compagni ogni giorno rischia la vita. Molto diverso è quello che accade nel fronte opposto, con i brindisi di Hamas quando si versa sangue israeliano, con la mancanza di leadership dell’ANP trincerata dietro le sue assertive rivendicazioni in fase negoziale, con la violenza diffusa e quasi sempre giustificata.

Al di là dei bei proclami onusiani, il timore che serpeggia un po’ ovunque è quello ritrovarsi davanti a un ennesimo “stato fallito” in Medio Oriente, quello palestinese, dopo Siria, Libia, Yemen, e in parte l’Iraq. E’ per questo che si può mettere una pietra sopra il processo di pace, obamiano e clintoniano, in attesa di capire quali saranno le prime mosse di Donald Trump. E quei Paesi con cui Israele ha firmato dei trattati di pace – l’Egitto e la Giordania per primi – farebbero meglio a mostrare un senso di responsabilità maggiore di quello avuto fino adesso dai palestinesi. Uno stato fallito sul nascere, del resto, avrebbe delle implicazioni negative non solo sulla sicurezza israeliana ma anche su quella del Cairo, di Amman e dell’intero quadrante mediorientale.