Dopo la delusione del G20, Benedetto XVI pensa a rilanciare l’agricoltura
18 Novembre 2010
Il Papa, e con lui l’insegnamento della Chiesa, non stanno sulla notizia, ma piuttosto sul Vangelo e i ritmi della liturgia. Per questo Benedetto XVI domenica scorsa ha seguito, innanzitutto, il tema liturgico della “Giornata del ringraziamento” che si celebra tradizionalmente in Italia nella seconda domenica di novembre come “azione di grazie a Dio al termine della stagione dei raccolti” e la lettera di S. Paolo per guardare l’oggi con la prospettiva del vangelo. Ma non ha fatto mancare, neanche stavolta, spunti di riflessione.
Chi si aspettava un suo pronunciamento sull’inutile G20 di Seoul non ha trovato pane per i suoi denti. Il Papa aveva già indicato chiaramente le sue forti aspettative dicendo che “il mondo vi guarda e si aspetta che appropriate soluzioni siano prese per superare la crisi”. Ma abbiamo visto che quelle soluzioni non sono arrivate. Soluzioni, aveva detto, che “non favoriscano alcuni paesi rispetto ad altri”. E invece proprio queste strategie sono state alla base dei colloqui e la principale causa del fallimentare summit. Ma il Papa ha continuato il suo magistero e ha messo ‘altra carne al fuoco’ per governanti e politici, parlando, al termine dell’Angelus domenicale, “in particolare del lavoro agricolo”.
Se “lo sviluppo deve essere anzitutto vero e integrale”, ci ha ricordato nella Caritas in Veritate; se “l’uscita dall’arretratezza economica non risolve la complessa problematica della promozione umana”; se “ogni crisi, economica, sociale o politica, è anche crisi morale”; se “il quadro dello sviluppo è policentrico”, l’attenzione al primo settore dell’economia forse è stato troppe volte trascurato dalla nostra società tecnologica e industrializzata. Lo aveva chiaramente indicato nell’enciclica, ma pochi lo hanno ascoltato: “non dovrebbe venir trascurata la questione di un’equa riforma agraria nei paesi in via di sviluppo.
Il diritto all’alimentazione, così come quella dell’acqua, rivestono un ruolo importante per il conseguimento di altri diritti. Così il “rilancio strategico dell’agricoltura” diventa decisivo, non solo per ragioni economiche, ma anche per ragioni culturali. Lavorare la terra, vivere in mezzo alla natura, seguirne e conoscerne i ritmi, rispettare il creato e difenderlo, senza però cadere nell’estremismo dell’ecocentrismo e del biocentrismo, che “eliminano la differenza ontologica e assiologia tra la persona umana e gli altri esseri viventi”, sono tutti motivi validi per tornare ad occuparsi di agricoltura.
A maggior ragione in un tempo in cui lo sviluppo è tutto sbilanciato verso la tecnica e la scienza. In questa ottica, come più volte hanno chiesto le ong, occorre aumentare considerevolmente gli Aiuti Pubblici allo Sviluppo e assegnarli all’agricoltura ed allo sviluppo rurale. Bisognerebbe destinare almeno il 10% dei rispettivi bilanci annuali all’agricoltura. Includere il diritto all’alimentazione come linea guida per la formulazione di politiche. Non solo. È necessario riformare le politiche agricole nei paesi OCSE per porre termine all’esportazione di beni agricoli al di sotto dei costi di produzione. La stessa UE, affermano le organizzazioni della cooperazione internazionale, deve terminare di dare i sussidi alle esportazioni, senza rendere condizionabile la conferenza di Doha.
Lo sviluppo agricolo, quindi, non è solo “in senso nostalgico”, come ci ha avvertiti il Pontefice. È una risposta “ad un bisogno personale e familiare, ma anche ad un segno dei tempi, ad una sensibilità concreta per il bene comune”.