Dopo la fiducia, la transizione italiana rischia di diventare sempre più lunga

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Dopo la fiducia, la transizione italiana rischia di diventare sempre più lunga

23 Dicembre 2010

A distanza di un settimana circa dal voto di fiducia del 14 dicembre scorso, non è forse inutile fare il punto sullo stato di salute del nostro sistema politico. La risicata fiducia ha marcato certo una passaggio positivo, perché è stata sconfitta la manovra centrista (o ribaltonista, i due termini sono di fatto sinonimi) che puntava a sostituire il governo Berlusconi, legittimamente designato dal voto popolare, con un’altra compagine governativa, legittimata da alcuni dei palazzi romani. Si è riusciti a salvare, cioè, il nocciolo duro di quel conato di riforma che giustifica la dizione di seconda repubblica: il legame forte tra voto popolare e governo.

 

Tuttavia si è trattato di un successo non indolore e, soprattutto, del tutto insufficiente in prospettiva. Cerchiamo di capire perché riepilogando in primo luogo,  brevissimamente, i fatti. Da parecchi mesi, il presidente della Camera Fini aveva messo in essere una manovra che si può definire tecnicamente trasformistica. Ha preso e ha fatto prendere a un certo numero di suoi sostenitori le distanze dalla maggioranza, mettendo in forse la continuità del governo. Un  gioco al rialzo che, pur in mezzo a mille giravolte tattiche, si è man mano precisato in una rottura non rimarginabile. Per reagire a questo stillicidio, il PdL ha fatto ricorso ad una molecolare ricerca di consenso in parlamento tentando, alla fine con successo, di cooptare singoli parlamentari nella maggioranza. In altri termini, il governo per difendersi dagli attacchi di Fli ha risposto colpo su colpo, mettendo in essere una manovra non meno trasformistica. I voti sono stati trovati e i sostenitori del governo (ma anche i fautori del principio maggioritario) hanno potuto tirare un sospiro di sollievo. Probabilmente non c’erano alternative possibili a questa tattica e occorre prenderne atto realisticamente. Ma occorre anche sapere che la deriva trasformistica può rivelarsi fatale per la chiusura della transizione italiana.

 

Che il male continui ad allignare lo confermano le cronache di questi ultimi giorni. Da più parti si è ricordato come l’interlocutore privilegiato del centro destra torni a essere Pierferdinando Casini e il suo partito. Per intendere come questo stato di fatto faccia registrare un netto arretramento del livello del confronto, allontanandoci dalla prospettiva di una democrazia dell’alternanza a struttura maggioritaria, basta por mente al fatto che il partito di Casini non ha rappresentanti in Senato e con una legge elettorale per la camera bassa appena un po’ più selettiva dell’attuale (un misero sbarramento del 5% sarebbe probabilmente sufficiente) non sarebbe presente in parlamento. Sostanzialmente, si tratta di un partito zombie che potrebbe essere tranquillamente eliminato con notevole giovamento sistemico. Adesso, invece, ce lo ritroviamo come un partito nuovamente pronto a proporsi come decisivo ago della bilancia.

 

A questo punto il dilemma che il centro destra ha di fronte si può sintetizzare nei termini seguenti. Per garantirsi in futuro contro eventuali sfaldamenti della maggioranza in corso d’opera sarebbero necessari pochi aggiustamenti costituzionali e regolamentari (rafforzamento dei poteri del presidente del consiglio, superamento del bicameralismo simmetrico, regolamenti parlamentari che impediscano la formazione di gruppi al di sotto di una certa soglia). Tuttavia, riuscire a varare queste piccole riforme (in questo scorcio di legislatura o all’inizio della prossima se si dovesse andare ad elezioni anticipate) dopo aver stipulato un accordo politico con l’Udc rischia di risultare impossibile. La formazione di Casini, per continuare ad esistere, ha bisogno di un regime politico in cui viga la sovranità delle segreterie di partito e non la sovranità popolare.

 

In conclusione, la manovra trasformistica di Fini è fallita, e il presidente della Camera vedrà ridimensionato, probabilmente in modo drastico, il suo ruolo politico. Però, il vulnus da lui portato a quel tanto di democrazia immediata che si era riusciti a strappare, rischia di risultare esiziale.