Dopo la sconfitta di Bruxelles, la Merkel presto cederà anche sugli eurobond
01 Luglio 2012
di Nassim
Quella che sta andando in scena da ormai quattro anni è il conflitto per il dominio della sfera pubblica del XXI secolo. Da sempre i segmenti della società si contendono la sfera pubblica per assicurarsi il controllo dello sviluppo.
Fu così nella Grecia classica quando i saggi pretesero di escludere il ceto artigiano, mercenario, dalla cosa pubblica. Fu così all’avvento della modernità quando l’aristocrazia terriera pretese di escludere i borghesi che sparlavano e si agitavano. Fu così nel XIX secolo quando la capitaneria d’industria pretese l’esclusione dei lavoratori. E così oggi Finanza e Politica si contendono il primato nella sfera che attribuisce il controllo della Società. Con una differenza rispetto al passato e in linea con i conflitti contemporanei: lo scontro non punta alla estromissione dell’avversario bensì alla sua riduzione in cattività perché con lui, il vincitore è condannato dal Mercato a collaborare subito dopo aver affermato la propria supremazia. Pena la recessione economica e l’instabilità sociale.
Questo spiega le contraddizioni postdemocratiche fra ventilato irrobustimento della pressione fiscale sulle attività finanziarie e dichiarato impegno a sostenere il sistema bancario; fra minaccia di proibizionismo borsistico e nazionalizzazione dei crediti bancari inesigibili.
E’ una pièce drammatica (speriamo non si riveli tragica) a uso e consumo delle cittadinanze. Politica e Finanza sanno infatti bene che gli Istituti di credito non possono fallire (ossia saranno salvati anche a costo di nazionalizzazione) perché hanno in pancia la maggior parte dei debiti sovrani e se falliscono trascinano gli Stati nel baratro insieme a loro.
Per molto tempo ha fatto comodo pensare che la sfera pubblica non fosse solo politica, esistendo il mercato quale sfera pubblica economica e la borsa quale sfera pubblica finanziaria. Altrettanto protagoniste nell’agorà mediatica. Le sovrapposizioni erano ricorrenti ed estese ma la Politica teneva forte la barra del timone e la Società seguiva i suoi indirizzi, fiduciosa nei progetti che proponeva. Poi l’utopia comunista è svaporata e con essa lo spirito di sacrifico che animava la civiltà occidentale. La crisi del credo economico liberale social-capitalistico è seguita a ruota e senza più il freno del Comunismo, il Capitalismo è finito preda del moto parassita dell’edonismo e delle scommesse sul denaro anziché sul lavoro.
Nel 2008 i non addetti ai lavori (e molti degli addetti concorrenti) assistettero al crack Lehman indifferenti e forse compiaciuti che tanti saprofiti perdessero il loro bonus annuale milionario e qualche migliaio di broker e di bancari uno stipendio da duecentomila euro l’anno in su (per la cronaca: si dice che la difficoltà maggiore che incontrerà Fabrizio Viola, AD del Monte dei Paschi, sarà tagliare gli stipendi di dirigenti senza incarico che guadagnano 20.000 euro al mese). Ad alimentare quel compiacimento fu la Politica, convinta di poterla finalmente spuntare sulla Finanza che tra un cocktail martini a Davos, una sciata a Aspen e una cena a Washinton Parigi Tokio minava la sua rappresentatività. Ma nel giro di pochi giorni tutto cambiò e la palla di neve che rotolava lungo il pendio della borsa investì le Società come valanga.
In quel momento tutti si accorsero che le sfere pubbliche, dove Politica Mercato e Finanza vivevano secondo autonomi paradigmi, erano scomparti della dimensione sociale, la quale piano piano e senza rumore le aveva fagocitate facendo dell’iperproduzione industriale e della finanziarizzazione del sistema volani per l’iperconsumo individuale.
Oggi che siamo al redde rationem, le Società accettano di pagare il costo degli eccessi da denaro facile, non sembrano invece disposti a fare altrettanto la Politica, pronta a mosse disperate pur di evitare riforme strutturali che la ridimensionano, né la Finanza, abile a paventare scenari apocalittici in caso di vincoli stringenti. Più disponibile l’industria, espressione di una classe sociale che non abiura il pragmatismo dell’origine borghese.
In questo contesto l’annuncio di riforme della politica, la nazionalizzazione e ristrutturazione di alcune banche, la riforma del fisco in senso patrimoniale e del mercato del lavoro in senso negoziale si confermano gli strumenti per saggiare la resistenza dell’avversario. Lo conferma l’ottovolante su cui rimane lo spread dei paesi sotto pressione e la contraddizione della stabilità del cambio dollaro euro.
I summit che da tre giorni su susseguono continuano a dire poco e produrre altrettanto. Gli atti della pièce si concludono e dietro il sipario gli sceneggiatori continuano a lavorare, convinti che i popoli europei, oggi meno sovrani di quanto siano mai stati, rimarranno allineati dietro i tecnici in cerca di soluzione. Negli stati maggiori della burocrazia europea si insinua però il dubbio che le cittadinanze greca spagnola italiana, e in parte quella francese, giudichino l’intransigenza tedesca rivendicativa di maggiorità politica ed economica rispetto alla minorità da cui gli altri stentano a emanciparsi per eccesso di indulgenza verso se stessi. I kaiser prussiani coltivavano identico rivendicazionismo nel campo militare e tutto sommato con qualche ragione. Come con qualche ragione lo coltiva la Bundesbank quando si oppone agli eurobond.
I tedeschi si stanno intruppando dietro i nein della Merkel alla velocità di un punto percentuale la settimana, dimostrando di non fidarsi dei popoli neolatini, i cui territori insieme a quelli balcani sono storicamente obbiettivi di visita dai tempi dell’Impero romano. I tedeschi visitano volentieri la campagna toscana e il riminese; invadono felici la Costa del Sol; ammirano i castelli della Loira e il mare delle Cicladi ma non fanno comunella con gli indigeni. E, per quanto benvenuti sono ricambiati dalla diffidenza che ispira chi è sempre serio, non sa godersi la vita e mangia con gusto una verdura insulsa come i crauti.
Questi residui di nazionalismo sono oggi – per fortuna – derubricati a sfottò durante le partite di calcio ma l’esultanza della Merkel durante la partita della Germania contro la Grecia ha forse tradito lo stress che le provoca il timore di essere gabbata di nuovo dalla nostra insulsaggine e la fermezza politica con cui cerca di esorcizzarlo.
Alla fine la Merkel dovrà cedere. Gli eurobond sono ineluttabili. Ne va dell’UE. Lasciamole allora la soddisfazione di fare la prima della classe e incassare i complimenti che pretende per la sua serietà.
Il prezzo politico dovrà però essere giusto ossia tenere conto di quanto è costata all’UE l’unificazione della Germania est con quella ovest a cambio pari delle rispettive monete (grazie al controllo ferreo dell’inflazione) e di quanto incassato grazie alla borsa da quattro anni a questa parte a spese del sud d’Europa. Altrimenti potrebbe finire come finiscono sempre le semifinali e le finali pallonare tra Italia Germania e questa continuerà a nutrire sudditanza psicologico verso il Belpaese sempre sfavorito ma sorprendentemente vincente.
I tedeschi si stanno intruppando dietro i nein della Merkel ma alla fine dovranno cedere