Dopo l’attentato di Rawda, in Siria la caduta di Assad è più vicina

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Dopo l’attentato di Rawda, in Siria la caduta di Assad è più vicina

21 Luglio 2012

Svolta o “resa dei conti” che dir si voglia – tanto per utilizzare l’espressione adottata da Antonio Ferrari sul Corriere della Sera di giovedì scorso – il destino di Bashar al Assad sembrerebbe, ora più che mai, destinato verso un’inesorabile fine. I prodromi di tale "resa dei conti" si sono visti nella giornata di mercoledì con l’uccisione, all’interno del Consiglio di sicurezza nazionale nella zona di Rawda, nel centro della capitale siriana, di quattro pedine fondamentali del regime: il ministro della Difesa, Dawood Rajiha, il suo vice nonché cognato di Assad, Asef Shawkat, l’assistente vicepresidente ed ex ministro della Difesa, Hassan Turkmani e il Capo della sicurezza nazionale, Hisham Ikhtiar.

Secondo i media tradizionali siriani, si sarebbe trattato di un attentato terroristico condotto in porto grazie all’azione di un kamikaze. In base alla versione del Free Syrian Army (FSA), invece, saremmo di fronte a un attacco al cuore delle istituzioni, espressione di quella battaglia conclusiva più volte auspicata ed agognata in campo ribelle, ma affatto opera di un attentatore suicida.

Louay Mokdad, coordinatore logistico dell’FSA e ripreso da Sam Dagher e Nour Malas sul Wall Street Journal, ha voluto confermare il dato secondo cui vi sarebbe stato un aiuto, un supporto dall’interno dell’edificio. Ciò, evidentemente, pone in tutt’altra luce gli ultimi sviluppi dell’intero affaire. I ribelli, infatti, sono riusciti nell’intento di penetrare nelle segrete stanze governative per effetto del ‘tradimento’ di taluni (ed ignoti) militari e funzionari della sicurezza, vera forza – nel corso dei decenni – del regime di Damasco.

Sul reale peso specifico del FSA, tuttavia, sono le opinioni degli analisti a divergere: da un lato, sempre sul Wall Street Journal, è Nadim Shehade – esperto di Medio Oriente presso il think-thank britannico Chatam House – ad affermare che “l’attacco è certamente da considerarsi un grande risultato per i ribelli, ma ancora non può esservi partita con l’esercito e le forze di sicurezza regolari”. Di tenore opposto, l’opinione di Steve Coll de The New Yorker. Per Coll, esperto di politica estera e sicurezza nazionale, gli ultimi avvenimenti avrebbero posto all’attenzione dell’opinione pubblica globale le falle dell’apparato militare di Assad. Di seguito alcuni elementi, inequivocabili: il ritiro delle forze regolari dalle alture del Golan; la diffusione di persistenti violenze nella maggior parte delle province del Paese; e, come già anticipato in precedenza, l’accelerazione delle defezioni in campo diplomatico e militare.

Inoltre, secondo quanto reso noto nelle ultime ore dall’Osservatorio siriano dei diritti umani, i ribelli avrebbero preso il controllo del varco di frontiera Bab al-Hawa, al confine con la Turchia. Ed in base alla ricostruzione di un responsabile della polizia irachena, un altro gruppo di ribelli avrebbe espugnato un altro valico di frontiera: quello di Boukamal.

In altre parole, viene spontaneo chiedersi se la potenza militare (e politica) del regime non fosse stata, nel corso del tempo, sovrastimata dalla Comunità Internazionale. Un po’ quanto accaduto in Bosnia tra il 1992 e il 1995: conflitto giudicato troppo complesso, rischio ‘pantano’ e quattro lunghi anni di repressione serba prima del risolutivo intervento della Nato.

La crisi, però, si presta ad altre considerazioni di carattere geo-politico. Ben oltre le frontiere siriane. Si stagliano all’interno dei confini siriani – secondo l’analisi di Vittorio Emanuele Parsi su La Stampa di giovedì – scenari “da incubo”. Già, un inquietante “puzzle” di difficile risoluzione se è vero che, in Siria, vanno a scontrarsi due super-potenze regionali: Iran e Qatar. Da un lato, Teheran, pronta alla strenua difesa del suo alleato siriano in vista della perduranza di quell’asse ‘Iran-Siria-Libano’ volto ad assicurargli lo sbocco sul Mediterraneo e l’influenza sull’intero Medio Oriente. Dall’altro, Doha e l’appoggio incondizionato ai Fratelli musulmani e, quindi, a una parte consistente dell’opposizione al regime. Nel bel mezzo, Israele e il pericolo di una Fratellanza più attiva che mai. Al potere in Egitto, a seguito dell’elezione di Mohamed Morsi a presidente della Repubblica, e ora a rischio insediamento anche al confine orientale, in Siria.

E ancora, il ruolo russo. L’Occidentale ha più volte rimarcato l’esistenza di uno strettissimo link tra la Russia ‘putiniana’ e la Siria ‘assadiana’. Link palesatosi, ancora una volta, giovedì scorso in sede di Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: veto (assieme a Pechino) e addio sanzioni.

Infine, le sorti di Bashar al Assad. Per l’ambasciatore russo in Francia Alexander Orlov a Radio France International, “avrebbe accettato il piano di una transizione verso un regime più democratico”, nel solco di quanto statuito all’incontro di Ginevra del 30 Giugno scorso con Kofi Annan, inviato speciale dell’Onu.

Insomma, trattative in corso in vista di un regime change, dal fronte di Assad, il più morbido e accettabile possibile. Una buona novella? In parte. Come noto ai più, un cambio di sovrano, di per sé, non basta: ne occorre un altro.