Dopo l’Ue la paura della crisi del debito sovrano inizia a far tremare gli Usa
08 Aprile 2011
Il destino economico del Portogallo è sempre più appeso a un filo, economico e politico. Proprio ieri la UE ha ricevuto una richiesta formale di aiuto da parte del governo portoghese. I fondi richiesti per il salvataggio ammonterebbero a circa 90 miliardi di euro. Un’enormità. Tuttavia, durante la riunione Ecofin di oggi alle porte di Budapest, Olli Rehn, commissario europeo per gli affari economici e monetari, ha escluso la possibilità di concedere un prestito ponte al Portogallo, dichiarando di voler attendere la negoziazione di un piano di intervento più incisivo e studiato con il nuovo governo che uscirà dalle elezioni previste per il prossimo 5 giugno.
Il Portogallo, quindi, non ce l’ha fatta ad uscire con le proprie forze dalla crisi della propria finanza pubblica e si è aggiunto alla Grecia e all’Irlanda nella lista dei paesi che hanno perso il controllo dei propri conti. Un economic failure al quale ha seguito un political failure, consistente nella sconfitta politica maturata dal governo in carica che ha dovuto alzare bandiera bianca davanti alla situazione economica non più governabile. Una dura lezione per questi tre paesi, poiché il piano di austerity che verrà richiesto dall’Europa come prezzo da pagare per la concessione del prestito sarà draconiano e verterà principalmente sul taglio della spesa pubblica.
Il che vuol dire riduzione dei salari dei pubblici dipendenti, con conseguente riduzione del potere d’acquisto ed effetti negativi sulla produzione e, quindi, sulla crescita. Un film già visto nelle piazze di Atene e Dublino, dove la coesione sociale è stata messa a dura prova. E un’altra notizia negativa, per i paesi europei con finanze pubbliche dissestate, è arrivata ieri dalla manovra della banca centrale europea, che ha alzato il tasso di interesse all’1,25 per cento. Una mossa che renderà più onerose le emissioni di titoli di debito da parte degli stati, con un conseguente pericolo di aumento degli spread rispetto ai bund tedeschi. Ed il duro Trichet ha fatto capire che si andrà avanti su questa strada, il rigore dei conti pubblici rimane uno dei principali obiettivi. La Spagna potrebbe essere la prossima a dover pagare le prime spese di questa politica monetaria.
Se a questo aggiungiamo il nuovo pacchetto di misure sulla governance europea appena varato dall’Ecofin, che richiederà ai paesi con finanze pubbliche dissestate un rigoroso piano di rientro che potrebbe costare diversi punti di PIL, possiamo ben comprendere come difficilmente si possa ipotizzare tassi di crescita elevati nel futuro. Il mix di politiche fiscali e monetarie restrittive porta ragionevolmente a pensare che la stagnazione economica possa perdurare ancora diversi anni, facendo presagire che i tassi di crescita registrati nella golden age della new economy, sono soltanto un lontano ricordo. Eppure, questa cura dimagrante delle finanze pubbliche nazionali, questo ridimensionamento della dimensione dello Stato, appare quantomai indispensabile, anche se il prezzo da pagare sarà elevatissimo. Per anni i governi hanno creduto di poter finanziare la crescita con il debito pubblico, sperando che poi, in un modo o nell’altro, le finanze si sarebbero risistemate da sole. Speranza che è naufragata nella crisi del debito più grave che la storia dell’economia abbia mai fatto registrare.
Anche negli Stati Uniti la paura della crisi del debito sovrano sta cominciando a montare, se pensiamo che ieri il partito repubblicano ha proposto per la nuova legge finanziaria 2012 un netto taglio della spesa pubblica (circa 3.530 miliardi di dollari), con l’obiettivo di tentare di portare il bilancio in pareggio per il 2015 e che il mancato raggiungimento dell’accordo bipartisan sulla finanziaria potrebbe addirittura provocare la paralisi dell’intera attività del governo, episodio che ebbe un unico precedente sotto l’amministrazione Clinton. Anche gli Stati Uniti, quindi, potrebbero venir presto toccati dalla crisi della finanza pubblica, ed essere costretti ad abbandonare l’uso strategico del deficit come stimolo per la crescita futura. Il rigore dei conti pubblici sembra così diventare una regola alla quale anche il principale player economico d’oltreoceano dovrà sottoporsi.