Dove va la Cina del futuro? Ce lo dirà la demografia
17 Aprile 2010
Si dice che l’Armata Popolare di Liberazione Cinese sia immensa non tanto per assolvere compiti esterni quanto per tenere sotto controllo la situazione interna, e l’impegno dell’esercito nel sedare i tumulti avvenuti nell’estate del 2009 in Sinkiang e nel Tibet lo confermerebbero. Sarà anche vero, ma intanto la Cina esce sempre più dai propri confini e i suoi strumenti militari si ammodernano e si gonfiano piuttosto velocemente. L’aeronautica militare è in espansione e pure la marina di Pechino è in crescita, nell’intento di fornire sicurezza lungo le linee di comunicazione percorse dalle petroliere che trasportano l’80% del fabbisogno cinese di energia. Anche le capacità missilistiche e satellitari sono in fase di miglioramento, come ha dimostrato il tentativo di accecare un satellite americano nel settembre 2006 e l’abbattimento, pochi mesi più tardi, di un satellite cinese non più in uso.
L’attivismo di Pechino in Africa è noto. Il continente nero dispone di materie prime e di risorse energetiche che all’economia cinese in crescita fanno molto comodo. Di conseguenza, i Cinesi si sono trovati nella necessità di dover fornire sicurezza al loro naviglio che viaggia da e per l’Africa, e pertanto hanno deciso di impegnarsi a fondo nelle operazioni di contro pirateria. La Cina non solo partecipa all’operazione internazionale al largo del Corno d’Africa ma sta seriamente pensando a realizzare una base logistica nel Golfo di Aden per meglio supportare le proprie navi.
Ma i mari caldi non sono gli unici a suscitare l’interesse di Pechino. Il Mar Glaciale Artico (sempre più Artico e sempre meno glaciale), con i passaggi a Nordest e a Nordovest in fase di progressiva apertura, rappresenta una priorità strategica per i Cinesi, che fin dal 2008 hanno chiesto e ottenuto di diventare osservatori nell’ambito del Consiglio Artico, il club dei Paesi che su quel mare si affacciano. Il 5 marzo scorso un ammiraglio cinese, Yin Zhuo, ha rincarato la dose dichiarando all’agenzia di notizie Xinhua che i cinque Paesi che possiedono acque territoriali nell’Artico (Stati Uniti, Russia, Canada, Danimarca e Norvegia) non hanno su quell’area più diritti di quanti ne abbia la Cina.
“L’Artico appartiene a tutti i popoli del mondo, e nessun Paese può reclamarne l’esclusiva sovranità”, ha detto suscitando l’irritazione del Cremlino che la pensa nel modo opposto. Il 2 agosto 2007 Mosca aveva inviato il batiscafo “Mir-1” a depositare sul fondo dell’Artico, in corrispondenza del Polo Nord, la bandiera russa, assieme ad un messaggio di rivendicazione della sovranità di Mosca non solo su quel punto ma anche sul milione di chilometri quadrati che lo circondano. La Cina, che già dispone di un ambizioso progetto di ricerche in Antartide (dal 1984 ha realizzato 26 spedizioni ed ha aperto tre stazioni di ricerca), nutre progetti altrettanto lungimiranti nell’Artico, ricco di risorse energetiche, tant’è vero che nel 2004 ha già aperto la sua prima base (denominata Huanghe, Fiume Giallo) a Ny-Alesund, nell’arcipelago norvegese delle Svalbard.
Su tutto questo attivismo cinese pesa però un’incognita che potrà frenare gli attuali progetti: la demografia. Il sovrappopolamento è visto come un fardello dalle autorità di Pechino, che hanno tentato di porvi rimedio nel modo apparentemente più logico: limitare le nascite consentendo alle famiglie di crescere un solo figlio. La cosa, però, ha avuto una serie di conseguenze a catena, tutte negative. La prima è stata la preferenza, da parte della maggioranza delle famiglie, per i figli maschi. Ciò ha comportato la triste pratica degli aborti selettivi, che sta generando, come conseguenza delle conseguenze, una popolazione con una forte maggioranza di vecchi e di maschi. Si prevede un surplus di 20 milioni di maschi nel 2030, quando la società cinese sarà caratterizzata dalla formula del 4-2-1, ovvero quattro nonni che hanno due figli e un solo nipote, e su quell’unico nipote graverà tutto l’onere previdenziale e pensionistico per i suoi due genitori e i quattro nonni. La società pertanto sarà sempre più attempata, la vecchiaia del Paese frenerà la crescita economica e il tutto si rivelerà socialmente e finanziariamente insostenibile. E come se tutto questo non bastasse, si prevede che lo sbilanciamento di genere a favore della componente maschile causerà un notevole aumento della criminalità, un fenomeno che già si manifesta con virulenza nei tessuti urbani delle megalopoli cinesi.
Un fenomeno sociale diverso, ma in qualche modo collegato a quello della criminalità e della diffusa illegalità, è l’aumento sensibile dei disordini sociali e delle sempre più diffuse proteste contro le autorità, cui seguono repressioni di muscolarità eccessiva. Tanto per fare alcuni esempi, a gennaio 2008 nella provincia centrale di Hubei, nel corso di una protesta contro la costruzione di un deposito di rifiuti, la polizia ha picchiato a morte un cittadino che stava tentando di filmare la repressione. Nel maggio 2009 centinaia di studenti hanno protestato a Nankino contro la brutalità della polizia che aveva percosso un loro compagno. A giugno nella città di Guangdong i dimostranti hanno catturato diversi poliziotti e le forze dell’ordine sono poi intervenute in massa per liberarli. A luglio 2009 hanno avuto luogo gravi disordini a Shanghai. A Pechino nell’ottobre 2009 un cittadino è stato percosso a morte dalla polizia per aver usato illegalmente la sua moto come taxi.
Nello stesso mese un altro venditore abusivo è stato ucciso dai poliziotti a Kunming, capitale della provincia meridionale di Yunnan, e nel novembre 2009 una donna si è data fuoco a Pechino per protesta contro la demolizione della sua casa. Il 26 e 27 marzo 2010, sempre a Kunming, sono avvenuti gravi disordini da parte di centinaia di persone che hanno incendiato autovetture governative. Molti giornali locali definiscono la situazione sociale come una bomba a orologeria. Yu Jianrong, un noto accademico, ha pronunciato un severo e preoccupato discorso (ampiamente diffuso via Internet) sulla situazione sociale, in cui prevede che se questi “incidenti di sfogo” -come lui li definisce- continueranno in modo selvaggio e imprevedibile, la situazione potrà tramutarsi in una “massiccia catastrofe sociale”.
Tutto questo potrebbe comportare, fra l’altro, anche un aumento della diaspora cinese a cominciare dalle aree più prossime, come la Siberia, che costituisce un caso assai delicato. Negli ultimi vent’anni (come sottolinea anche il rapporto “Joint Operating Environment (JOE) 2010” edito dal Joint Forces Command USA il 15 marzo scorso) la popolazione cinese in Siberia è andata numericamente aumentando e si è trasformata da pendolare a stanziale, conquistando progressivamente la maggioranza in numerose città, province e distretti, grazie anche al fatto che nelle stesse zone la popolazione russa tende a diminuire drasticamente. Infatti mezzo milione di Russi, vale a dire l’8% dell’intera Siberia, se ne sono andati nell’ultimo decennio, sostituiti da un milione di Cinesi non vincolati dalla politica pechinese del singolo figlio per nucleo famigliare. Potendo sfornare una decina di figli per famiglia, i Cinesi siberiani, che oggi ammontano quasi al 12% della popolazione abitante fra gli Urali e Vladivostok, è facile capire dove potranno arrivare nel giro di una o due generazioni. E se a quel punto i Cinesi siberiani chiederanno l’autodeterminazione (principio che i Russi odiano nel caso del Kosovo ma amano nei casi di Abkhazia e Ossezia del Sud), è facile prevedere di quale colore diventerà la Siberia. E risulteranno anche chiari i motivi dell’elevato interesse che la Cina ha manifestato per l’Artico dal 2008 in poi.
Sullo sfondo di tutto questo resta il dilemma di Taiwan. Alle prese con problematiche sociali interne di grave entità, insisterà Pechino nel perseguire l’obiettivo, mai dimenticato, della riunificazione di tutta la madrepatria annettendo militarmente Formosa? A parte i costi politici, bellici e finanziari di un’operazione del genere, ci sono buone probabilità che l’annessione dell’isola possa avere come conseguenza l’inarrestabile diffusione degli ideali democratici nella Cina continentale. Inoltre, come fa notare il citato rapporto “JOE 2010”, sarà molto difficile che il partito comunista cinese possa impadronirsi dei cuori e delle menti di una popolazione altamente benestante, istruita e tecnologicamente avanzata come quella taiwanese. Al contrario, sarà più probabile che lo stile di vita di Taipei si diffonda sulla terraferma. In altre parole, un eventuale tentativo di annettere con la forza Taiwan potrebbe rivelarsi il peggiore affare possibile per Pechino, in quanto realizzerebbe, sì, il mito di “una sola Cina”, ma quell’unica Cina finirebbe per chiamarsi Taiwan.