Dove va l’Egitto post-Mubarak? Prove di triangolo con Iran ed Hamas

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Dove va l’Egitto post-Mubarak? Prove di triangolo con Iran ed Hamas

09 Aprile 2011

La scorsa settimana, il neo ministro degli Esteri egiziano, Nabil al-Arabi, e il suo omologo iraniano, Ali Akbar Salehi, hanno espresso la volontà di rilanciare i rapporti tra i loro Paesi. “Egiziani ed iraniani meritano di avere relazioni reciproche che riflettano la loro storia e civiltà: l’Egitto non considera l’Iran come un Paese nemico”, ha dichiarato al-Arabi, mentre secondo Salehi “le buone relazioni tra i due Paesi aiuterebbero a riportare la stabilità, la sicurezza e lo sviluppo nell’intera regione”. Il regime khomeinista ha dunque accolto con entusiasmo l’invito del Cairo e sta pianificando il viaggio di una delegazione diplomatica con l’obiettivo di creare un Gruppo parlamentare d’amicizia Iran-Egitto. In verità, il primo passo verso il riavvicinamento tra Teheran ed Il Cairo risale al 22 febbraio scorso, quando le autorità egiziane hanno consentito a due navi iraniane di passare il Canale di Suez.

Le relazioni tra Iran ed Egitto si erano incrinate alla fine degli anni ‘70, a causa dell’asilo politico concesso dal Cairo al deposto Shah, Reza Pahlavi, e della firma da parte egiziana degli accordi di pace di Camp David con Israele. A Teheran venne dedicata una strada a Khaled Eslamboli, il capo del commando che nel 1981 uccise il presidente egiziano Anwar Sadat. A tal proposito, può essere considerato un segno della distensione in corso la recente scarcerazione di Abboud al-Zomor, ex ufficiale dell’intelligence egiziana, dopo una lunga detenzione per l’approvvigionamento dei proiettili usati per assassinare Sadat.

Durante il regno di Mubarak, i rapporti tra i due paesi hanno subito un progressivo deterioramento fino alle tensioni più recenti. Nel febbraio 2008, l’allora ministro degli Esteri iraniano, Manouchehr Mottaki, recatosi al Cairo dichiarò che le due nazioni erano sul punto di riprendere i legami politici, ma la situazione precipitò nel dicembre dello stesso anno, quando i due paesi si schierarono su fronti opposti nel conflitto di Gaza. Il presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, accusò il governo di Mubarak di essere "complice dei crimini di Gaza inflitti dai sionisti" e in risposta Il Cairo impedì a una nave iraniana di trasportare armi ad Hamas attraverso il Canale di Suez. Inoltre, ad aprile 2009 le autorità egiziane arrestarono quarantadue membri di Hezbollah per associazione a delinquere finalizzata alla realizzazione di azioni ostili contro obiettivi egiziani. Mubarak si spinse oltre ed accusò direttamente l’Iran di finanziare i terroristi libanesi per destabilizzare i paesi sunniti. Di contro, l’Iran incolpò l’Egitto di aver abbandonato la causa palestinese come complice del Piccolo satana nel bloccare il valico di Rafah e isolare Gaza con un muro d’acciaio sotterraneo.

Cosa è cambiato oggi tra Iran ed Egitto?

Il personaggio che ha sempre spinto per un riavvicinamento tra i due paesi è sicuramente Amr Moussa, attuale segretario generale della Lega araba e già ministro degli Esteri egiziano. Se fino a un anno fa Moussa veniva considerato all’interno della Lega araba dalla delegazione egiziana e saudita “un anonimo funzionario” impegnato “in inutili colloqui con l’Iran”, dopo le rivolte di piazza Tahrir la posizione di Moussa è totalmente cambiata. Questi, infatti, è tra i favoriti alla successione dell’attuale governo ad interim e potrebbe esserci proprio lui dietro lo stakanovista ministro degli esteri al-Arabi.

Attraverso una politica filo-iraniana, alternativa agli USA ed all’Arabia Saudita, e soprattutto ostile ad Israele, Moussa cercherebbe il consenso dei vari partiti formatisi dopo lo tsunami politico causato dalle proteste di febbraio, trovando nell’islamismo il collante giusto per conquistare il potere. Per consolidare il proprio consenso personale, il segretario generale della Lega Araba potrebbe puntare sulla scissione dei Fratelli Musulmani (già divisi tra il più moderato “La Rinascita d’Egitto” e il più duro “Giustizia e Libertà”) e cercare di sfruttare l’ascesa della corrente salafita. Questa sta prendendo sempre più la forma di un vero soggetto politico, grazie all’ampio potere nel sud del Paese dove alcuni suoi esponenti, scarcerati sotto l’onda della “deMubarakization”, sono divenuti veri e propri capi villaggio che cercano di imporre il velo alla popolazione femminile e la chiusura dei caffè dove si vendono bibite alcoliche.

L’ascesa salafita preoccupa anche l’ex capo del Pentagono, Donald Rumsfeld, che al Washington Times ha dichiarato: “Le elezioni anticipate darebbero ai gruppi islamisti, ben organizzati, un vantaggio rispetto ai partiti laici che devono ancora sbocciare”. Le ansie di Rumsfeld sembrano essere le stesse del generale Mohamed Hussein Tantawi, capo del consiglio supremo delle Forze Armate, che preoccupato dalle correnti salafite e dai Fratelli musulmani ha detto chiaramente: "L’Egitto non sarà governato da un altro Khomeini". E il riferimento a Khomeini, viste le ultime mosse della diplomazia egiziana, non sono affatto casuali.

D’altro canto, Moussa ha rilanciato la sua politica di riavvicinamento all’Iran in chiave anti-israeliana durante un incontro in Giordania sul processo di pace in Medio Oriente con il vice presidente iracheno Adel Abdul-Mahdi, il primo ministro dell’Autorità palestinese, Salam Fayyad, il primo ministro giordano, Nader al-Dahabi, e Alexander Sultanov, inviato speciale per la Russia in Medio Oriente. In quest’occasione, Moussa ha affermato di non considerare l’Iran “come il problema principale. In realtà, il mondo arabo non ha alcun problema con l’Iran; il problema principale che minaccia la regione è l’attività nucleare di Israele". "Se gli insediamenti ebraici non vengono presto evacuati – ha aggiunto – dovremmo fermare tutti gli sforzi politici per raggiungere un compromesso: l’unica scelta che abbiamo è quella della resistenza”. Mentre il programma nucleare iraniano non sembra affatto preoccuparlo. Stando a Moussa, “non è una minaccia per il mondo arabo” a differenza, invece, del primo ministro israeliano: "Se continuiamo ad ascoltare Netanyahu, non ci sarà mai la pace”. Parole che hanno trovato nel neo ministro degli esteri al-Arabi un’ottima sponda, visto che all’indomani della sua nomina ha accusato Israele di “genocidio” dei palestinesi, invitando gli stati arabi a promuovere azioni contro lo stato ebraico per “le atrocità che ha commesso”.

Queste dichiarazioni non potevano non essere accolte con gioia da Hamas, che ha elogiato “le lucide e nette posizioni prese da al-Arabi” soprattutto dopo che una delegazione del Movimento musulmano di resistenza si é incontrata nella giornata di martedì 29 marzo con il ministro degli Esteri egiziano. La delegazione, che includeva il co-fondatore di Hamas Mahmoud al-Zahar (egiziano per parte materna), ha riportato la decisa impressione che il nuovo Egitto post-Mubarak sia sul punto di lanciare una serie di segnali di discontinuità col precedente regime, soprattutto nei suoi atteggiamenti e nelle sue iniziative nei confronti di Gaza ed Hamas. Domenica scorsa, stati rilasciati quattordici palestinesi accusati di contrabbando e terrorismo dal vecchio esecutivo, che si sono aggiunti agli affiliati ad Hamas evasi durante le proteste di piazza, come Ayman Nofal, ufficiale delle "Brigate Al-Qassam", ala militare di Hamas. Queste hanno ripreso le attività terroristiche a Gaza, da dove un colpo di artiglieria ha colpito un paio di giorni fa un autobus in Israele, ferendo due persone, una delle quali seriamente.

Hamas, da cavallo di Troia dell’Iran, potrebbe così trovare un nuovo alleato nell’Egitto di Amr Moussa e di al-Arabi. L’aumento del lancio di razzi (almeno 21 negli ultimi tre giorni) e delle attività terroristiche contro Israele sono un segnale a dir poco preoccupante.