Draghi, credibilità e riforme inascoltate
01 Giugno 2011
Cinque buoni anni. E’ questo il bilancio lasciato da Mario Draghi alla Banca d’Italia, con le sue ultime considerazioni finali prima di divenire presidente della BCE. Ancora una volta, il suo, un testo asciutto. Appena più lungo di quelli cui ci aveva abituati, così diversi dalle lunghe analisi di Antonio Fazio, appunto perché si è trattato di aggiungervi il bilancio del quinquennio, unendo per il centocinquantesimo italiano le parole di Cavour alla lezione di Ciampi, accompagnato in sala da Draghi stesso.
Il declino italiano non è ineluttabile, tornare a crescere si può e si deve. Su questo, Draghi non ha riservato sorprese. L’aggiornamento consiste nel forte appoggio al pareggio del bilancio al 2014 posto da Giulio Tremonti come obiettivo dell’Italia in Europa, il che comporta un taglio della spesa primaria corrente al netto degli interessi del 5%, riportandola al livello di inizio decennio. E’ lo stesso appoggio venuto da Confindustria, e sarà utile nei prossimi mesi, viste le nubi che nella maggioranza post voto si addensano sul capo di Tremonti, accusato di troppo rigore. Al contempo, Draghi e la Marcegaglia hanno concordato al millimetro anche nel giudizio, però, che i tagli lineari sono l’opposto di ciò che serve: cioè un accurato esame voce per voce della spesa corrente, per concentrare lo Stato laddove dovrebbe essere presente ed efficiente ma non c’è, e tagliarlo molto invece nell’infinità di settori in cui c’è ma non dovrebbe esserci. Di questa azione capillare di revisione dello Stato – annunciata da 17 anni puntualmente a ogni elezione – non è umanamente pensabile da parte mia che sia capace il centrodestra oggi dopo la botta elettorale, al terzo anno di legislatura, con la forte crisi d’immagine e sostanza e credibilità di Berlusconi. La sinistra uscita vincente dalle urne amministrative, sterzata su antagonismo e giustizialismo, mi pare lontanissima da una revisione dello Stato capace di alleviarci di punti di Pil di spesa pubblica e tasse. Dunque, il quadro è fosco. E di questo si è sempre fatto forte Tremonti: tra lo statalismo di destra e quello di sinistra, lui efferma e difende il suo come minore dei mali, perché almeno contiene il deficit e ci salva in Europa e non è poco.
Nell’esame degli interventi strutturali necessari al rilancio della crescita, da meno imposte sui lavoro e impresa al rilancio delle infrastrutture,da una riforma del mercato del lavoro che si estenda anche alla flessibilità in uscita all’esigenza di un’intesa sulla rappresentanza in azienda che consenta di andare avanti sulla via delle intese aziendali e delle deroghe al contratto nazionale, Draghi ha rilanciato l’agenda riformista per far crescere insieme produttività delle imprese e reddito dei dipendenti. E’ un messaggio in bottiglia a una politica che non c’è, ad attori politici che non mi sembrano minimamente in grado di far propria questa via. Ripeto: esattamente come avviene per il programma di Confindustria, che è del tutto analogo e non è stato un caso, che all’Assise di bergamo come all’Assemblea di Roma iconfindustriali abbiano tributato a Draghi vee e proprie ovazioni, come all’unico italiano istituzionale – insieme a Napolitano – capace di farci stare all’onore del mondo. (Tremonti s’incazza, quando lo si dice, e non capisce che lui ha dei meriti ed è rispettato in Europa, ma il discredito del premier cade su di lui come su tutti i componenti del governo, inevitabilmente).
In che cosa Draghi è stato invece tagliente? Innanzitutto nel rivendicare l’autonomia e l’indipendenza di Bankitalia, perché è un monito al governo in vista della nomina del suo successore. E poi nelle materie che attengono al suo mandato di presidente del FSB, e a quello futuro in BCE. Personalmente condivido moltissimo il pensiero di Draghi in materia di intermediari finanziari sistemicamente importanti, i cosiddetti Too Big To Fail: è errato aver indotto la convinzione che essi non debbano e non possano fallire, con procedure che colpiscano azionisti e manager e alcune classi di creditori, ma senza investire depositanti e stabilità di sistema. Senza rischio di fallimento, l’azzardo morale non si riduce perché si spera sempre nel salvataggio a spese del contribuente.
In materia di debito europeo, Draghi si è attenuto deliberatamente alla linea del massimo rigore germanico: la Grecia non si lamenti, può e deve fare come l’Italia all’inizio degli anni Novanta ed è meglio per lei. La BCE deve debellare l’inflazione, dunque implicitamente i tassi saliranno. Concordo: non abbiamo bisogno di una BCE al laccio della politica, di un bis della FED.
Sulle banche italiane, mi aspettavo francamente di più. E anche alcuni passaggi di ottimismo sulle misure di ordinamento assunte dal G20 mi sono sembrate eccessivamente “rosa”. Ma è evidente che Draghi pensa ormai al futuro, ed evita su queste materie di sollevare diffidenze e sfiducie, che sarebbero molto pericolose in queste ultime settimane decisive per assurgere alla BCE.
C’è stato invece un passaggio solo implicito, nelle ultime considerazioni di Draghi, che merita di essere richiamato. Quando il governatore ha sottolineato che la Banca d’Italia deve avere il potere di intervenire su manager e decisioni bancarie in materia di remunerazioni e dividendi che possano avere effetti sistemici, è ovvio che la polemica non dichiarata era verso il governo, visto che quei poteri sono spariti all’ultimo secondo dal testo del decreto legge sviluppo varato tre settimane fa. Ma la polemica ancora più implicita era verso le banche italiane. Perché in realtà è stato l’Abi, a chiedere al governo che quei poteri non venissero affidati al regolatore. Un errore che spero verrà presto rimediato. Perché è ovvio e giusto, che il regolatore indipendente non possa e non debba sempre far la felicità e la tranquillità delle banche regolate.
(Tratto da Chicago-Blog)