Dubbi e tensioni alimentano i rialzi

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Dubbi e tensioni alimentano i rialzi

05 Aprile 2011

“Con la sola e grande eccezione dell’America, gli idrocarburi hanno mostrato notevole ritrosia a depositarsi nei territori delle democrazie occidentali. Petrolio e gas non abitano in Svizzera, e bisogna andarseli a comprare altrove”. Se questi Paesi sono instabili, i mercati scontano in anticipo il rischio.
E se poi per conquistare il consenso i futuri regimi aumenteranno i sussidi pubblici finanziati dalla rendita petrolifera allora ci saranno ancora tensioni al rialzo. Sulle fonti rinnovabili “la previsione è che tra 25 anni una quota variabile tra 60 e 80% dei nostri consumi continui ad essere di origine fossile”I consumatori sono allarmati.
Il prezzo del petrolio dall’inizio dell’anno è in continua costante crescita. L’incidente alla centrale nucleare giapponese di Fukushima ha prodotto una moratoria nell’avvio del programma atomico in Italia e per di più alle porte c’è un referendum che potrebbe impedire la costruzione di nuove centrali nella Penisola.
Fotovoltaico e eolico sono alternative che non soddisfano ancora la domanda. E’ lecito dunque domandarsi quale scenari si prospettano e come dovrebbe affrontarli il Paese. Massimo Nicolazzi, attualmente amministratore delegato di Centrex, società di commercializzazione del gas controllata da Gazprombank, per l’esperienza accumulata nel settore, è qualificato a spiegarci se ci troveremo o meno di fronte a un’emergenza analoga a quella che abbiamo vissuto nel 1973.

Il perdurante quadro di instabilità che caratterizza i Paesi del Nord Africa, del Medio Oriente e del Golfo Persico pone la necessità di ripensare le fonti di approvvigionamento nazionale di idrocarburi?

Con la sola e grande eccezione dell’America, gli idrocarburi hanno mostrato notevole ritrosia a depositarsi nei territori delle democrazie occidentali.
Petrolio e gas non abitano in Svizzera, e bisogna andarseli a comprare altrove. La possibilità di un ripensamento ha comunque un limite fisico. Per il petrolio liquido ed i suoi prodotti si pone poi, in senso proprio, una questione di diversificazione. I liquidi viaggiano (in prevalenza) via nave; e la flessibilità della loro logistica rende virtualmente mondiale il mercato potenziale di qualunque produzione.
Per dirla con uno dei più grandi economisti del petrolio (M.A. Adelman) “The world market, like the world ocean, is one great pool”. Il gas viaggia ancora in grande prevalenza per tubo e non per nave; ed al tubo è pressoché impossibile cambiare tanto l’origine che la destinazione.
Qui la “diversificazione” è tecnicamente possibile, ma è condizionata dalla disponibilità di nuove infrastrutture e dal relativo investimento. E’ però difficile, in generale, pensare che qualcuno possa essere attratto dall’investire in una struttura non pienamente utilizzata.
Una diversificazione intesa come aggiunta di nuovi produttori in parallelo al crescere della domanda è sempre possibile ed è esperienza nota (la Libia, via Green Stream, ed il Qatar, via terminale di Rovigo ne sono entrambi testimonianza). Una diversificazione creativa di sovraccapacità a fini di riserva di sicurezza mi sembra più problematica.
Difficile pensare che si possano costruire tubi per tenerli semivuoti senza ricorrere a denaro pubblico.

E’ ipotizzabile il rischio di vedere aumentare significativamente i prezzi per i consumatori finali nell’immediato futuro, ovvero dal prossimo inverno come suggeriscono i media?

Nessuno di noi sa come andrà a finire in Nord Africa; e soprattutto in Medio Oriente e nella Penisola Arabica.
Il dubbio crea volatilità, e tensione all’accaparramento. Il mercato sconta il rischio; e se sconti ad esempio il rischio di una temporanea interruzione della produzione saudita e te la cavi (come sinora) con 10-15 dollari di aumento ti è solo andata bene. Poi ci sarà da capire se e come si stabilizza.
Il sospetto è che qualunque sia l’esito per le forme di governo nazionali, i futuri satrapi e/o regnanti e/o presidenti democraticamente eletti si ritrovino tutti accumunati dalla tentazione di uscire dalla crisi e comunque di catturare consenso a colpi di oil welfare. Re Abdullah in Arabia Saudita per evitare la protesta ha iniettato nel sistema 129 miliardi di dollari di spesa pubblica corrente (essenzialmente welfare e salari pubblici).
Può dettare lo standard per cui a aumento demografico, disoccupazione e quant’altro i Paesi produttori rispondono cercando di aumentare i sussidi finanziati dalla rendita petrolifera. Se questa sarà la scelta, la stabilità potrebbe domani creare tensioni al rialzo dei prezzi tanto quanto ne crea la volatilità oggi.
E’ troppo presto per dire. Come ha titolato il Financial Times, oggi sono solo wells of anxiety. Pozzi d’ansia. Per le certezze aspettiamo domani.

Il sistema Paese dovrà farsi carico di costi anche sul fronte della raffinazione o di altri settori della filiera?

Ci sono le imprese, ci sono i Paesi, e ci sono i mercati.
La benzina viaggia per nave esattamente come il petrolio. Negli Stati Uniti l’ultima raffineria l’hanno costruita nel 1976. Da allora la domanda di prodotti raffinati è cresciuta significativamente; e loro hanno moltiplicato l’import anziché la raffinazione a casa propria.
Si sono tenuti il trasporto su gomma; e hanno delocalizzato la puzza della produzione di carburante. I greggi sono infiniti; e le raffinerie non sono eguali. La sospensione della produzione libica toglie dal mercato barili di greggio “dolce”, cioè privo o quasi di zolfo; e una parte del sistema di raffinazione non è in grado di desolforare efficacemente i greggi cosiddetti “acidi”.
E’ perciò aumentata, con ovvi riflessi sul prezzo, la domanda di produzioni con caratteristiche analoghe a quella libica (e segnatamente tra le altre di alcune qualità di greggi azeri, algerini e kazaki). Il tema però è quello dell’adeguatezza della capacità mondiale di raffinazione in relazione alle tipologie di greggio disponibili, e non quella di un astratto “sistema Italia”; che per caratteristiche di alcune sue raffinerie rischia ricadute negative sui conti d’impresa ma a cui la globalità del mercato manterrà un sostanziale allineamento del costo di approvvigionamento di prodotti raffinati.

Le cosiddette fonti rinnovabili possono essere incentivate per coprire parte di questo deficit energetico?

Fuor di sommosse e rivoluzioni, questo è comunque il secolo in cui il combinarsi del progressivo esaurimento delle risorse tradizionali e del crescere di preoccupazioni ambientali obbligherà ad avviare la transizione dall’era dell’energia fossile (petrolio, gas, carbone) all’era del non sappiamo che cosa.
Cambiare non solo fonti, ma anche infrastrutture di trasformazione (dai motori alle centrali alle turbine a quant’altro) è impresa di esito incerto; e di tempi certamente lunghissimi. Il mercato, con il suo amore per il tutto maledetto e subito, è difficile che da solo ce la faccia.
Di qui la giustificazione per una politica energetica pubblica che incentivi la transizione. Tutto bene, purché due cose siano chiare. Non si va da nessuna parte incentivando rendita anziché innovazione; e non ci possiamo aspettare risultati miracolosi di sostituzione delle fonti fossili nel breve periodo.
Incentivare rendita è stata in questi anni specialità nostrana; e che ci ha consentito di scaricare in bolletta al consumatore sussidi a impianti a bassissima efficienza. Donde il sospetto che mi porto addosso che in termini di stimolo all’innovazione una buona carbon tax (una tassazione cioè delle emissioni in atmosfera) possa fare meglio di mille incentivi.
A correggere l’aspettativa del miracolo, per converso, basta credo citare la International Energy Agency. Nell’Outlook 2010 la Iea ha simulato tre scenari di consumo energetico da qui al 2035. Quello più virtuoso è lo scenario “450”, in cui Iea ci ipotizza capaci di una riduzione delle emissioni in atmosfera tale da mantenerci nel limite delle 450 parti di Co2 per milione.
Nello scenario 450, nel 2035 le fonti non rinnovabili “moderne” (essenzialmente eolico, fotovoltaico e geotermia) soddisfano grosso modo il 9% della domanda mondiale di energia. Nello scenario opposto (quello in cui continuiamo a comportarci come ora) siamo sotto il 5%. In funzione della nostra virtù, la previsione è che tra 25 anni una quota variabile tra 60 e 80% dei nostri consumi continui ad essere di origine fossile.
Auguri per la transizione.

(tratto da L’Opinione)