Due aggettivi per la politica estera di Obama: “smart” e “soft”

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Due aggettivi per la politica estera di Obama: “smart” e “soft”

13 Maggio 2009

“Smart Power” e “Soft Power”, sono questi i concetti che l’amministrazione Obama vuole implementare in materia di politica estera e nei rapporti con gli “Stati canaglia” come l’Iran o la Corea del Nord. D’altronde, lo stesso segretario di stato Hillary Clinton durante il suo discorso d’insediamento, ha fatto riferimento allo smart power ora diventato un termine alla moda tra i giovani sostenitori del nuovo presidente americano.

“Dobbiamo fare uso di ciò che è stato definito potere intelligente – tutti gli strumenti di cui disponiamo – diplomatici, economici, militari, politici, legali e culturali – scegliere lo strumento giusto, o la giusta combinazione di strumenti, per ogni diversa situazione. Con il potere intelligente la diplomazia diventerà l’avanguardia della politica estera”.

Portato alla ribalta da Suzanne Nossel  in un articolo per Foreign  Affairs del marzo 2004, il concetto di “potere intelligente”, consiste nel riaffermare la dottrina liberal-internazionalista americana, così come avevano fatto Wilson, Roosevelt, Truman e Kennedy. Si tratta quindi di prendere le distanze dalla “Dottrina Bush” fatta di un “arrogante unilateralismo” e di “muscoli tirati” e unire tutti i popoli del mondo sotto la bandiera degli ideali americani.

C’è chi ha obbiettato che mentre (all’inizio degli anni novanta) Bill Clinton parlava di diplomazia e di apertura al dialogo nei confronti di Teheran, il governo iraniano testava i suoi missili a media e lunga distanza. I sostenitori del soft power, però, restano convinti che la diplomazia e l’appeal americano, se irradiati nel mondo musulmano, faranno senz’altro proseliti ed eviteranno ogni futura possibile tensione, riportando gli Stati Uniti al loro ruolo di "guida illuminata".

Concetto non dissimile quello del “Soft Power”, battezzato dal politologo di Harvard Joseph Nye. Per dirla con Gary J. Schmitt dell’American Enterprise Institute, il soft power è l’idea “che il fascino culturale, economico e militare dell’America sia la chiave per sostenere i suoi interessi nazionali anche all’estero”.

In quest’ottica di negazione del concetto huntingtoniano di Clash of Civilizations, lo scontro fra la civiltà Occidentale e quella musulmana, caratterizzate da valori diametralmente opposti, non c’è spazio per i nemici, che diventano “persone che la pensano diversamente”. In questa visione, il fascino delle highways statunitensi, degli hamburger, dei colossal hollywoodiani e dei grattacieli può facilmente sovvertire l’ordine delle cose e indurre alla ragione anche i fondamentalisti islamici.

Dall’altra parte c’è chi sostiene – i perfidi neocon – che il periodo di pax americana di cui ancora godiamo è stato creato grazie agli sforzi bellici americani. Che i panzer e i blitzkrieg di Hitler e la Krasnaja Armija sovietica siano stati frenati ad est e ad ovest dell’Europa dalle iniziative militari americane. Più recentemente, la brama di sangue e di potere del “martire” Saddam Hussein, le mire egemoniche dell’Iran di Ahmadinejad e prima di Khomenei, e gli sforzi tesi alla distruzione di Israele da parte di Hezbollah e Hamas – sempre secondo la visione “guerrafondaia” dei neocon americani – sono stati contenuti sempre e soltanto dai giovani soldati statunitensi.

La nuova amministrazione Usa, però, vuole senz’ombra di dubbio liberarsi di questa tradizione guerrafondaia e inaugurare un nuovo periodo diplomatico, incentrato sulla diplomazia del “volemose bene”. L’intenzione è dimostrare al mondo che l’America è l’esempio da seguire e che non ci sono motivi per farsi la guerra. Nella teoria delle relazioni internazionali, come insegnano Alfred Zimmern e Robert Kehoane, questa filosofia viene etichettata come “idealista”. Per gli idealisti l’interdipendenza economica tra le nazioni basta a prevenire eventuali conflitti armati. Il realista Hans Morgenthau non sarebbe d’accordo, per lui l’interesse è definito in termini di potere, e la politica riflette la natura umana, più bellicosa che pacifista.

Da queste premesse parte un nuovo progetto dell’American Enteprise Institute, portato avanti da Gary Schmitt, coordinatore del Program on Advance Strategic Studies ed ex-direttore del President’s Foreign Intelligence Advisory Board della Casa Bianca, ai tempi di Ronald Reagan. Il progetto di Schmitt, intitolato A Hard Look at Hard Power. Assessing the Defense Capabilities of U.S. Allies and Security Partners ("Uno sguardo duro alla politica di Potenza. Stimare le capacità difensive degli alleati e dei partner in materia di sicurezza"), si propone di organizzare conferenze e dibattiti fra think tank in giro per l’Europa ed il mondo, allo scopo di valutare lo stato degli eserciti e della spesa militare dei paesi alleati degli Usa. Il progetto avrà una durata di circa tre anni, alla fine dei quali i dati raccolti daranno un’idea della capacità difensiva degli occidentali.

Schmitt ritiene infatti d’importanza “vitale” il contributo che gli Stati filo-occidentali possono dare alla lotta contro il terrorismo internazionale e gli “Stati canaglia”. In questo senso è fondamentale stimare il budget per la Difesa, la forza effettiva delle truppe, le capacità di schieramento delle stesse in campo ostile e gli investimenti per la ricerca e lo sviluppo di nuove armi.

L’America, oggi più che mai, ha bisogno del supporto dei suoi alleati visto che l’amministrazione Obama sembra intenzionata a ridurre le spese per la difesa in un momento storico molto delicato, mentre i nemici della democrazia, innanzitutto il fondamentalismo islamico, sono in grado di colpire da più parti e con rinnovato vigore il mondo occidentale.