E’ arrivato il momento della stretta finale contro Gheddafi
26 Aprile 2011
di redazione
Dopo sole cinque settimane dal primo attacco aereo in Libia da parte dell’Occidente, la battaglia sta perdendo intensità. Con l’avanzata dei ribelli e il Colonnello Muammar Gheddafi che ha riguadagnato terreno verso est, si è giunti a ciò che sembra una fase di stallo. Lo sdegno che ha unito il mondo di fronte alla la minaccia di un massacro a Bengasi ha cominciato a scemare. Sono riaffiorati i differenti interessi all’interno della colazione. Al momento il dibattito si concentra su un punto fondamentale: quando l’America fornirà l’armata aerea speciale necessaria per attaccare le truppe del colonnello all’interno delle aeree urbane (soprattutto la sciagurata Misurata dove gli uomini del Colonnello stanno commettendo delle vere e proprio atrocità). Barack Obama temporeggia, l’Europa è in iperventilazione. C’è un disperato bisogno dell’aviazione e perdere Misurata sarebbe un danno irreparabile, ma la cosa preoccupante è che quest’esitazione generale è sintomatica sia di una riluttanza diffusa a portare a termine l’impresa, sia di una spaccatura riguardo a come ciò andrebbe fatto. Siamo al momento in cui, in una campagna militare, per mancanza di applicazione e di riflessioni lucide, l’impresa rischia di fallire e per di più in sordina. Siamo al momento della alla resa dei conti, è il momento di mettersi in gioco
LE STIME. Si pensi a qual è la posta in gioco nei deserti del Nord Africa. I non interventisti dai due lati dell’Atlantico tuonano che l’Occidente non ha nessun interesse reale in questa battaglia. I più cinici sostengono che gli arabi hanno poco a che fare con la democrazia e prendono poco sul serio i ribelli libici definendoli come un miscuglio di terroristi e contestatori che si appigliano a rivendicazioni di una vaga democrazia. Dietro tutto questo c’è in agguato uno spettro: che le truppe occidentali stiano finendo in un altro pantano, come è accaduto in Iraq e in Afghanistan. La gente si chiede “Quando, secondo il piano, è il momento della exit strategy o di definire la missione?” la divisione della Libia si fa probabile. Un’espansione della missione è in vista. Ancora non c’è motivo di credere che l’espansione della missione dovrebbe trasformare la Libia in un pantano. La Libia non è chiaramente né l’Iraq né l’Afghanistan. La rivolta conto il Colonnello Gheddafi è insignificante a confronto.
La Libia non ha IEDs (ordigni esplosivi improvvisati, ndr), né Green Zone, né un proconsolato americano. Non c’è, non ci sarà e né ha motivo di esserci alcuna invasione sulla terraferma. Quella della Libia è un’operazione completamente diversa. Gli scopi di un intervento deciso sono tanto di tipo umanitario quanto di tipo idealistico, ma anche politici e pragmatici. E su tutti i fronti, le cose stanno andando decisamente bene piuttosto che male. Per iniziare, migliaia di vite umane sono state salvate a Bengasi e in diverse parti del Paese da quando si è riusciti ad evitare che il Colonnello mettesse in atto la sua vendetta verso quelli che si sono esposti, in un primo momento in maniera pacifica, manifestando la loro opposizione. Misurata è un promemoria degli orrori sventati nella Libia orientale. Gli scettici sostengono che questa battaglia non riguardi nessun altro all’infuori della Libia, ma il mondo intero starebbe decisamente meglio se fosse data la possibilità di rinascere ad una terra che, sin dal crollo dell’Impero Ottomano avvenuto un secolo fa, è stata per anni bloccata tra povertà e politiche inadeguate. Inoltre, prima dell’insurrezione araba, la scelta era tra sottostare, in una sorta di torpore fatalistico, a leader autoritari come Hosni Mubarak o alle delusioni di estremismi in stile Al Qaeda. All’improvviso gli Arabi hanno dovuto sbarazzarsi della cultura del vittimismo, auto-responsabilizzarsi e scatenare la creatività dei giovani.
Per quanto riguarda la convinzione di stampo razzista secondo la quale gli Arabi non possono essere democratici, di certo nessuno si aspetta di vedere comparire dal nulla e da subito democrazie perfettamente sviluppate. La creazione di un governo arabo migliore sarà un processo caotico ed incerto, ma sarà sicuramente meglio che sottostare a dittatori spietati come, ad esempio, Bashar Assad, in Siria. L’altra posta in gioco della situazione in Libia è la svolta che provocherà questo storico cambiamento. La missione sarà completamente compiuta quando i sostenitori di Gheddafi saranno sostituiti da un governo più rappresentativo. Il tanto parlare di un cambio di regime sta allarmando molti. I pacifisti si lamentano del fatto che rivolgersi a Obama e ai suoi alleati britannici e francesi, David Cameron e Nicolas Sarzoky, per sbarazzarsi del Colonnello, vada oltre i termini stabiliti dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Lo stesso vale, aggiungono, per le bombe sganciate su Tripoli. Tuttavia questa iniziativa è indiscutibilmente legale: la risoluzione delle Nazioni Unite autorizza “ tutte le misure necessarie” per bloccare le forze occupanti il Paese e proteggere i civili. Questa elasticità ovviamente torna utile alla coalizione interventista, concedendole il diritto di bombardare le risorse militari, quali carri armati e artiglieria, che il colonnello utilizza indiscriminatamente per fare fuoco sui civili. La risoluzione non vuole la soppressione del Colonnello ma, in quanto capo delle forze militari, egli è responsabile di crimini contro l’umanità. Una pace vera e duratura, nella quale i Libici possano essere liberi di esprimere i loro pensieri per le strade, non potrà mai esserci fino a quando il colonnello rimarrà al potere.
E’ ANCHE NEGLI INTERESSI DELL’AMERICA. L’impresa libica tende ancora al successo, ma la caduta di Misurata, una perdita di fermezza da parte dell’Occidente o qualche passo falso militare o diplomatico potrebbe far finire tutto nel modo sbagliato. Ed è qui che Obama è di importanza cruciale. Ciò non vuol dire che gli altri alleati non possano fare qualcosa di più. Sarebbe di grande aiuto se altri stati Arabi, in particolare l’Egitto, si unisse con il Qatar, gli Emirati Arabi e la Giordania per supportare i ribelli. Troppi Stati europei, come l’Italia e la Spagna, sono stati reticenti, nonostante la loro insistenza sul fatto che il pugno duro europeo conti ancora. In passato, le armate aeree europee, ingenuamente, non si sono preoccupate di equipaggiarsi con abbastanza aerei per gli attacchi sul terreno; così ora avrebbero potuto polverizzare gli armamenti del colonnello con estrema precisione nelle aree urbanizzate. E ha contribuito a questa debolezza il non riuscire a posizionare abbastanza aerei da combattimento nel cielo. Ma ciò che più pesa è la mancata presenza di Obama dietro tutta l’impresa. Ben consapevole del disastro causato dal suo predecessore in Iraq, ha fatto bene a rimanere in disparte in un primo momento, quando l’agitazione araba era agli inizi. Tuttavia, sulla Libia si è trattenuto dall’intervenire un po’ troppo. Nessuno vuole che la cavalleria americana si impegni a tutto spiano in una guerra in cui nessuno può garantire il risultato sperato. Ma Obama non può trattenere le forze militari americane per non sporcarsi le mani. Accanto agli Europei e gli Arabi, dovrebbe mandare consulenti, supporti logistici ed elettronici per appoggiare i ribelli, dal momento che la risoluzione delle Nazioni Unite glielo permette. Non importa ciò che i sondaggi elettorali diranno una volta tornato a casa , il presidente americano ora è coinvolto in tutto questo; e gli elettori non faranno altro che applaudirlo quando ne uscirà da vincitore. Se mai è stato calcolato un momento per fare spazio alla decisione, questo momento è adesso.
Tratto da The Economist
Traduzione di Giampaolo Tarantino