E’ divorzio tra Sharif e Zardari. Dura poco l’alleanza anti-Musharraf
29 Agosto 2008
In molti, dentro e fuori il Pakistan, speravano che le dimissioni di Pervez Musharraf dalla carica di presidente avrebbero segnato l’inizio di una nuova era nel Paese, ostaggio ormai da lungo tempo di una guerriglia islamista in costante ascesa e in preda a una pesante crisi economica. Aspettative disilluse. Lunedì scorso, infatti, il Pakistan’s Muslim League-Nawaz (Pml-N) dell’ex premier Nawaz Sharif ha rotto l’alleanza con il Pakistan People’s Party (Ppp) di Asif Ali Zardari, il partito di maggioranza relativa dell’attuale governo di Islamabad.
L’uscita dalla coalizione di maggioranza del Pml-N ha acuito nuovamente l’incertezza politica nel Paese e ha posto fine a quella che in Pakistan consideravano una intesa innaturale tra due forze politiche che fino alle elezioni parlamentari del febbraio scorso si sono sempre combattute strenuamente. La comune avversione verso Musharraf era il loro cemento programmatico. Caduto il ‘dittatore’ è venuta meno ogni ragione per proseguire il cammino insieme.
Sharif ha accusato Zardari – vedovo di Benazir Bhutto, l’ex premier assassinata lo scorso 27 dicembre e leader storica del Ppp – di non aver rispettato i termini di un accordo stipulato tra i due il 7 agosto scorso. Secondo tale intesa, rivelata alla stampa dallo stesso Sharif, i rispettivi partiti avrebbero concertato una azione comune per obbligare Musharraf alle dimissioni o, in caso di suo rifiuto, per rimuoverlo mediante un procedimento di impeachment. Una clausola finale definiva poi le linee fondamentali della fase politica successiva al suo definitivo allontanamento dal potere, in particolare riguardo al destino dei 60 giudici da lui rimossi nel novembre 2007 – poco dopo aver proclamato lo stato di emergenza in tutto il Paese – e all’elezione del nuovo presidente.
Il reintegro dei giudici è stato il cavallo di battaglia del Pml-N sin dalle elezioni di febbraio e con esso Sharif si gioca tutta la sua credibilità politica. L’accordo del 7 agosto prevedeva il loro reinserimento entro 24 ore dall’uscita di scena di Musharraf. La riluttanza di Zardari e del governo guidato da Yusuf Raza Gilani – il suo chaperon di partito – nel procedere in tal senso, aveva aperto una prima crisi politica già a maggio, quando il Pml-N era uscito dall’esecutivo, continuando però a fornire un appoggio esterno.
Zardari ha ribadito che tutti i giudici licenziati da Musharraf saranno presto restaurati, compreso il giudice capo della Corte Suprema, Iftikhar Muhammad Chaudhry, acerrimo nemico dell’ex presidente. Otto di questi, in effetti, hanno riottenuto il loro incarico all’Alta Corte della provincia del Sindh. Sharif e i suoi, insieme al sempre più influente movimento degli avvocati pakistani (il vero bastione anti-Musharraf prima del ritorno in patria alla fine del 2007 della Bhutto e dello stesso leader del Pml-N), hanno ribattuto che l’ordine esecutivo emanato in merito da Gilani è a tutti gli effetti incostituzionale, in quanto dispone la ‘rinomina’ e non il ‘reinserimento’ dei giudici: in sostanza sarebbe un indiretto avallo dei provvedimenti assunti dall’ex presidente durante lo stato di emergenza.
La maggior parte degli osservatori sono concordi poi nel ritenere che Zardari, in realtà, non avrebbe alcuna intenzione di rimettere al suo posto Chaudhry, il quale potrebbe ostacolare la sua fulminea ascesa politica. L’ex chief justice, infatti, ha sempre affermato che, una volta tornato al suo posto, si sarebbe adoperato per eliminare le leggi emergenziali promulgate da Musharraf. Non farebbe eccezione una legge di amnistia di cui hanno beneficiato Zardari e altri esponenti del Ppp, tra cui la stessa Bhutto al momento del suo rientro in Pakistan. In tal senso si possono leggere le parole pronunciate mercoledì da Farooq H. Naek, ministro della Giustizia di Islamabad, il quale ha definito legittima la posizione dell’attuale giudice capo della Corte Suprema, Abdul Hameed Dogar, osservando che da un suo eventuale allontanamento potrebbero sorgere problemi di costituzionalità.
Con l’accordo del 7 agosto, Zardari aveva promesso a Sharif che il futuro presidente sarebbe stato scelto di comune accordo tra i loro due partiti. Nel caso in cui non si fosse proceduto alla riforma degli attuali poteri presidenziali, il candidato alla più alta carica dello Stato avrebbe dovuto essere una figura democratica e superpartes. In base al 17° emendamento alla Costituzione, introdotto da Musharraf nel 2003, il presidente pakistano ha il potere di licenziare il premier, di sciogliere in qualsiasi momento l’Assemblea Nazionale e i quattro Consigli provinciali del Paese, di dichiarare lo stato di emergenza, oltre a essere ‘commander in chief’ delle forze armate. Se si fosse invece tornati al regime parlamentare previsto dalla carta costituzionale del 1973, con un premier forte e un presidente figura simbolica e garante dell’unita nazionale, il Ppp avrebbe potuto scegliere un proprio uomo. La candidatura di Zardari in assenza di una revisione dei poteri presidenziali è senza ombra di dubbio una chiara violazione del patto con il leader del Pml-N.
Il 6 settembre, l’Assemblea Nazionale e i quattro Consigli provinciali si riuniranno in seduta comune per eleggere il nuovo presidente. I pronostici sono tutti dalla parte di Zardari, che non dovrebbe avere problemi a superare i candidati del Pml-N (l’ex giudice della Corte Suprema Saeeduzzaman Siddiqui) e del Pakistan Muslim League Quaid-i-Azzam (Mushahid Hussain Sayed, senatore e attuale segretario generale del partito), la forza politica creata nel 2001 da Musharraf.
Il leader del Ppp – che ha respinto al mittente le allusioni del Financial Times sui suoi presunti problemi mentali – può contare sulla maggioranza dei voti, espressione di una coalizione piuttosto varia e disomogenea: un mix tra gli orientamenti ‘liberal-secolari’ del suo partito, il nazionalismo pashtun dell’Awami National Party e il particolarismo etnico del Muttahida Qaumi Movement, forza leader nei grandi centri urbani del Sindh (come Karachi), in passato strenua oppositrice dei Bhutto (originari di questa provincia) e alleata di Musharraf. Si segnala, inoltre, l’appoggio quasi certo a Zardari del partito islamista Jamiat Ulema-i-Islam (Fazl).
Sharif ha dichiarato dal canto suo che il Pml-N si impegnerà in una opposizione costruttiva, senza deviare dal percorso democratico tracciato a febbraio. Ha lanciato poi aperture al Pml-Q, con il quale potrebbe costruire un fronte nazional-conservatore più coerente della nuova coalizione di maggioranza. Sharif non ha poi chiuso le porte alla Jamaat-i-Islami, altra forza della galassia islamista pakistana, che aveva boicottato le ultime elezioni.
Il vedovo della Bhutto sta acquistando un crescente peso politico in patria e all’estero. Nonostante abbiano dichiarato più volte di non volersi immischiare negli affari interni pakistani, in particolare nella contesa per la presidenza, appare sempre più evidente che gli Stati Uniti abbiano scelto un ‘nuovo uomo forte’ a Islamabad. L’incremento nell’ultimo mese delle operazioni militari contro le milizie talebane lungo il confine con l’Afghanistan e il recente bando di Tehrik-i-Taliban (l’organizzazione ombrello dei talebani pakistani), dimostrano che il leader del Ppp ha deciso di assecondare le richieste in materia di Washington. E’ probabile che il disco verde per defenestrare l’ormai screditato Musharraf sia arrivato proprio dalla Casa Bianca, una volta ottenute garanzie dalla nuova leadership pakistana sul suo impegno nella guerra al terrore.
Le fortune di Zardari dipenderanno molto da come si muoverà su questo fronte (che dai confini con l’Afghanistan si sta allargando rapidamente ai grandi centri urbani del Paese), dalla sua capacità di esercitare un effettivo controllo sulle forze armate e sugli onnipresenti servizi segreti (Isi, Inter-Services Intelligence) e dal modo in cui gestirà il ritiro dalle scene di Musharraf. Un suo eventuale fallimento determinerebbe – per l’ennesima volta nella storia del Pakistan – il probabile ricorso a una soluzione extracostituzionale. Martedì scorso, il sospettato numero uno per riportare il Paese alla ‘normalità’ in caso di crisi, si trovava a bordo della portaerei Lincoln di stanza nell’Oceano Indiano: è ora Ashfaq Pervez Kayani, capo di stato maggiore delle Forze armate pakistane, l’uomo con cui in realtà gli Usa preferiscono dialogare per sconfiggere al-Qaeda e i talebani in Pakistan.