E’ giusto che il sindacato tuteli i lavoratori, ma la Fiom rischia di danneggiarli

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E’ giusto che il sindacato tuteli i lavoratori, ma la Fiom rischia di danneggiarli

24 Novembre 2011

di L. C.

Il piano industriale presentato dalla Dr Automobiles Groupe per l’acquisizione dello stabilimento Fiat di Termini Imerese aveva convinto tutti: il ministero dello Sviluppo economico, la Regione siciliana e la quasi totalità dei sindacati, che a loro volta avevano trovato la massima disponibilità da parte dei vertici dell’industria molisana. Apertura convinta al nuovo investitore anche da parte delle aziende dell’indotto. La firma definitiva dell’intesa era attesa per ieri. Ma ancora una volta si è registrata una battuta d’arresto. Il motivo? Lo scontro, ormai a tutto campo, tra la Fiom e il Lingotto.

Per dare il via libera, il sindacato dei metalmeccanici chiede garanzie sia sul numero di operai che potranno beneficiare del prepensionamento, sia sui fondi che si intende mettere sul tavolo per agevolare la cosiddetta mobilità incentivata. Le risposte della holding dell’amministratore delegato Sergio Marchionne non sono state ritenute soddisfacenti dalle organizzazioni sindacali. Con questo risultato: l’incontro si è chiuso con un’altra fumata nera. Le parti si incontreranno ancora mercoledì prossimo. Sarà la volta buona? Possibile. Anche perché la Regione siciliana si è detta disponibile a intervenire per sostenere gli operai che inevitabilmente finiranno in mobilità.

Del resto, il tempo stringe: da oggi la Fiat smette di produrre in Sicilia. Gli operai andranno in cassa integrazione fino al 31 dicembre e poi si vedrà. Ecco perché le istituzioni spingono per una chiusura rapida della trattativa. Mentre si perde tempo al tavolo della trattativa, gli operai finiscono in mezzo a una strada. E qui si arriva al nocciolo del problema. L’eterno braccio di ferro tra le aziende e i sindacati (in particolare la Fiom) fino a quando può andare avanti? Si può accettare a cuor leggero che a rimetterci a causa dell’ostinazione dei sindacalisti siano sempre i lavoratori?

Il caso Irisbus, lo stabilimento Fiat della Valle Ufita, nell’Avellinese, è significativo. Anche quando la Fiat ha deciso di chiudere la fabbrica, ritenuta un ramo secco, si è fatta avanti la Dr Automobiles Groupe. L’obiettivo dell’azienda molisana era quello di abbandonare la produzione di pullman (hanno poco mercato) e di riconvertire lo stabilimento puntando sui veicoli commerciali. I sindacati non hanno voluto neanche vederlo, il piano di rilancio proposto da Massimo Di Risio. Che, alla luce di questa ostilità, ha deciso di farsi da parte. Risultato: agli operai resta solo la cassa integrazione. E l’illusione che arrivino i cinesi a rilevare la fabbrica avellinese. La realtà è che la fabbrica chiude, lasciando tutti senza lavoro. Lo stesso rischio si corre a Termini Imerese: se si tira troppo la corda, prima o poi si spezzarà. 

Se la trattativa dovesse naufragare (proprio ora che sta andando in porto) si otterrebbe questo risultato: bruciare circa millecinquecento posti di lavoro perché ci si sta impuntando su un nodo che riguarda un centinaio di lavoratori. Certo è che gli scontri sempre più frequenti tra industrie e sindacati danno da riflettere. Certi rapporti vanno rivisti. Nell’era della globalizzazione anche il mercato del lavoro è cambiato. È altrettanto vero che la Fiat in passato ha beneficiato di cospicui fondi statali, per cui ha una sorta di "debito" nei confronti dell’Italia. Ma oggi la multinazionale torinese non può più permettersi di fare beneficenza, se vuol restare competitiva. Per questo il Lingotto, ma anche altre aziende italiane, si trovano di fronte a un bivio: o si delocalizza la produzione dove la mano d’opera è più a buon mercato, oppure si rendono più flessibili i contratti di lavoro in Italia.

Di qui la rottura, culminata con la decisione di Marchionne di disdire tutti gli accordi sindacali a partire da gennaio 2012. Martedì Fiat e sindacati si incontreranno per discuterne. Ma al di là dell’esito del confronto, per le organizzazioni sindacali è arrivato il tempo di fare un passo indietro. Lo chiedono gli stessi operai, come hanno dimostrato lo scorso anno con il voto del referendum allo stabilimento di Pomigliano d’Arco, quello incentrato sugli investimenti per la realizzazione della nuova Panda. A chi parlava astrattamente di diritti, hanno risposto rivendicando un diritto molto più concreto: quello al lavoro. Messo a rischio da quei sindacalisti che con i loro scioperi e i “no” a tutti costi rischiano di far espatriare anche altre aziende italiane. È forse giunto il tempo di fare un po’ di sana autocritica. Perché se da un lato il sindacato si sta trasformando in un autentico freno allo sviluppo delle imprese nazionali, dall’altro rischia di perdere il sostegno degli stessi lavoratori, la loro ragion d’essere: fino a quando saranno ancora disposti, gli operai, ad accettare le trattenute sindacali dalla loro busta paga?