E’ giusto restare in Afghanistan perché la nostra presenza argina il terrorismo

LOCCIDENTALE_800x1600
LOCCIDENTALE_800x1600
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

E’ giusto restare in Afghanistan perché la nostra presenza argina il terrorismo

20 Gennaio 2011

Con la morte del Tenente Massimo Ranzani il numero dei nostri soldati caduti in Afghanistan sale a 37. Il cordoglio per la morte del giovane ufficiale è stato pressoché unanime, con la sola eccezione del leader dell’Idv Antonio Di Pietro che, pur esprimendo solidarietà ai familiari, non ha perso l’occasione per criticare la missione dell’esercito italiano nel Paese, recentemente rifinanziata e contro la quale l’Idv aveva espresso voto contrario. Ripubblichiamo ‘Il blog del Direttore’ apparso su l’Occidentale il 20 gennaio scorso a seguito della morte di un altro alpino, Matteo Miotto. A quanto pare le ragioni per rimanere in Afghanistan espresse dall’articolo più di un mese fa restano valide ancora oggi.

La domanda se le forze internazionali e quelle italiane in particolare debbano o no restare in Afghanistan è una domanda terribilmente seria. Ma non andrebbe mai posta – come invece accade puntualmente – all’indomani dell’uccisione di soldati italiani. In questo caso infatti la risposta non può che essere “si”, con il rischio di apparire sommaria e impietosa. I soldati italiani in Afghanistan sono ormai ben addestrati, bene armati, motivati e perfettamente inseriti nelle operazioni alleate contro i Talebani. Ciò non toglie che, come in ogni guerra, la morte sia la loro compagna di strada in ogni minuto della loro giornata. Lo sanno i soldati, lo sanno le loro famiglie, lo sanno i comandi militari e lo sappiamo tutti noi. Non si lascia una guerra perché si muore, sarebbe come smettere di nuotare perché ci si bagna.

La domanda sulla nostra presenza in Afghanistan è invece una domanda seria a cui occorre rispondere ogni giorno, a cui il governo, il Parlamento, le forze politiche dovrebbero dedicare continua attenzione,  mettendo ogni volta a verifica intenzioni, strategie e risultati. Di questa consapevolezza semmai si sente la mancanza quando una nuova vittima ci mette di fronte alla realtà di una guerra di cui ci ricordiamo solo nei giorni del lutto.

Dare una risposta motivata allora diventa più difficile. Ci piacerebbe poter dire con sicurezza che le forze alleate in Afghanistan guadagnano posizioni, che i Talebani arretrano, che il governo Karzai è sulla strada di prendere il controllo della sicurezza del paese, che il Pakistan fa la sua parte come promesso sul confine orientale, che Obama si è messo in testa di vincere quella guerra. Sono tutte cose un po’ vere e un po’ no, soggette a continua evoluzione: successi e fallimenti fanno parte di una stessa storia.

Eppure, se si guarda un po’ più da vicino la situazione afghana e insieme si allarga lo sguardo alle sue ripercussioni planetarie qualche indizio positivo comincia ad accumularsi. La strategia di contro-insorgenza inaugurata con convinzione nello scorso anno ha prodotto risultati in termini di eliminazione numerosi comandanti talebani riducendone la capacità strategica; l’impiego estensivo di droni ha limitato molto le possibilità per i jihaidisti di avere basi stabili, campi di addestramento, e li ha costretti a continui spostamenti. Sul versante diplomatico il governo nazionale e i governatori locali con il sostegno delle forze Isaf hanno stretto molti accordi con i capi tribù Pashtun: si tratta di iniziative ancora a macchia di leopardo ma hanno ridotto il sostegno della popolazioni locali verso la guerriglia e la sua capacità di reclutamento.

Non è difficile vedere gli effetti ad ampio raggio di questi risultati locali. Durante il 2010 si sono notati una serie di attentati potenzialmente catastrofici ma falliti o sventati all’ultimo momento. L’auto bomba a Time Square a maggio, le cartucce per stampanti esplosive sugli arei in ottobre, due terroristi suicidi a Stoccolma a dicembre, solo per citarne alcuni, sono episodiche mostrano come Al Qaeda ha perso capacità operativa, i suoi uomini mancano spesso di addestramento e le intelligence internazionali hanno migliorato la loro capacità di infiltrazione. Tutto questo è il risultato anche del fatto che l’Afghanistan – il fronte più avanzato del terrorismo internazionale – è diventato un posto molto più scomodo e pericoloso per il Talebani e i loro sostenitori grazie al sacrificio, tra i tanti, di Matteo Miotto o di Andrea Sanna. Mentre noi discutiamo se farli tornare c’è un sacco di gente nel mondo che li ringrazia per esserci stati.

(Tratto da Il Tempo)