E’ giusto tornare all’autorizzazione a procedere? Sì, ma non basta
22 Luglio 2008
Dopo l’approvazione alla Camera del D.D.L. Alfano sullo “scudo processuale” per le quattro più alte cariche dello Stato, il dibattito delle ultime settimane sui rapporti fra politica e giustizia si è incentrato sulla opportunità di reintrodurre l’antico istituto dell’autorizzazione a procedere.
Il “ritorno”, anche alla luce dell’esperienza dell’ordinamento spagnolo, all’istituto dell’autorizzazione a procedere per i parlamentari, già previsto dalla originaria formulazione dell’art. 68 Cost. potrebbe rappresentare un valido ausilio alla “normalizzazione costituzionale” dei rapporti fra magistratura ed Istituzioni politiche.
La riforma costituzionale del ‘93, sull’onda dell’indignazione per Tangentopoli, subordina – come è noto – all’autorizzazione della Camera d’appartenenza soltanto gli interventi giudiziari sui parlamentari, che siano limitativi delle loro principali libertà fondamentali, prima di una sentenza irrevocabile di condanna.
La reintroduzione, naturalmente mediante legge costituzionale, di un’autorizzazione a procedere, che però preveda il sindacato della Corte costituzionale sul provvedimento parlamentare (per evitare le perversioni “di casta”, che ne avevano segnato il discredito nella Prima Repubblica) si porrebbe secondo alcune proposte come un rimedio di gran lunga preferibile alla “forzatura” del Lodo Alfano, per superare lo scontro fra politica e giustizia.
Orbene, pur condividendo il suggerimento, utile per contribuire ad un virtuoso riequilibrio fra funzione giudiziaria e sovranità del Parlamento, essa, quand’anche trovasse l’accordo di entrambi gli schieramenti politici ed una celere approvazione parlamentare ex art. 138 Cost., si rivelerebbe comunque insufficiente a garantire la realizzazione di quelle che il D.D.L. Alfano si è posto come finalità primarie di garanzia istituzionale, nel solco di quanto osservato dalla Consulta nell’ormai famosa sentenza n. 24/2004.
Innanzi tutto, infatti, giova sottolineare la diversità dei fini posti a fondamento dei differenti istituti. Se le immunità parlamentari ed una “rinnovata” autorizzazione a procedere (che ovviamente interessano anche il Premier o i ministri che siano membri del Parlamento) hanno la funzione di garantire l’autonomia e l’indipendenza delle due Camere, quali organi direttamente rappresentativi del corpo elettorale, il D.D.L. Alfano, come sottolineato dalla stessa Corte, ha lo scopo di garantire l’“interesse apprezzabile” al “sereno svolgimento delle rilevanti funzioni che ineriscono a quelle cariche”, che trascendono (pur includendoli) quelli delle due Camere in una prospettiva di tutela più ampia rispetto a quella ex art. 68 Cost.
Ma aldilà di ciò, la pretesa di risolvere i nodi inerenti la tutela al centro del D.D.L. Alfano soltanto con la revisione dell’art. 68 Cost. si rivelerebbe probabilmente un’illusione foriera, anzi, di ulteriori problemi di costituzionalità.
Non costituirebbe, infatti, violazione dei principi d’eguaglianza e di ragionevolezza ex art. 3 Cost., il prevedere con la novella dell’art. 68 l’autorizzazione a procedere per il premier ed i ministri parlamentari, escludendola invece qualora il premier, o i ministri, non facciano parte del Parlamento? E che dire del Presidente della Repubblica, il cui status è costituzionalmente incompatibile con la membership parlamentare?
Né sono invocabili al riguardo gli artt. 90 e 96 Cost., per la semplice ragione che tali previsioni prevedono, la prima, l’irresponsabilità del Capo dello Stato, per gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, la seconda, anch’essa limitata alle sole ipotesi funzionali di reato del presidente del Consiglio e dei ministri, la competenza del giudice ordinario, previa autorizzazione delle camere.
Nulla, infatti, è previsto da tali norme a tutela della serenità d’esercizio del mandato per le ipotesi di procedimento penale estranee alle funzioni, lasciando pertanto “scoperta” un’esigenza che fu avvertita, in tempi “non sospetti” e soprattutto a prescindere dalle vicende giudiziarie di Silvio Berlusconi, già all’epoca del Presidente Scalfaro per la vicenda “Sisde”.
Una vicenda, quest’ultima, che
Si trattò, evidentemente, di una soluzione meramente discrezionale, che incideva su quegli stessi principi (eguaglianza, obbligatorietà dell’azione penale, ragionevole durata del processo) invocati oggi, senza che il legislatore, unico abilitato a farlo, potesse mettervi parola.
La conclusione dell’iter di approvazione del nuovo “Lodo” può essere, allora, il punto di partenza per una seria riflessione anche sull’istituto delle immunità parlamentari.
Ma si tratta di pezzi “diversi”, ed egualmente necessari, per la ricomposizione di un “puzzle”, quello dei rapporti fra ruoli istituzionali e funzione giudiziaria, che da troppo tempo tarda ad arrivare, continuando ad avvelenare un quadro politico-istituzionale bisognoso di equilibrio, serenità ed efficienza.