E’ la democrazia il peggior nemico di Al Qaeda

LOCCIDENTALE_800x1600
LOCCIDENTALE_800x1600
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

E’ la democrazia il peggior nemico di Al Qaeda

17 Dicembre 2007

Nello stesso giorno in
cui Al Qaeda nel Maghreb colpiva sia la sede del consiglio costituzionale
algerino – danneggiando anche il limitrofo Alto consiglio islamico – sia
l’edificio che ospita l’organizzazione per i rifugiati (Unhcr), a Roma aveva
luogo il convegno “Battaglia della democrazia nel mondo islamico”. La tragica
ironia, che ha temporalmente legato i due eventi, è solo apparente. In effetti
i due episodi appaiono sempre più tappe distinte di un medesimo processo
storico, se si ascoltano con attenzione le parole – intelligentemente riportate
su “Il Foglio” da Meotti – di Bernard Lewis, arabista e professore a Princeton,
partecipante a quel simposio romano.

Dagli attentati
algerini vengono confermate tre lezioni. Innanzitutto è sempre più chiaro
che  Al Qaeda  più che una complessa organizzazione
internazionale del terrorismo islamico di matrice sunnita (sempre che lo sia
mai stata) è – dopo l’11 settembre  ed il
successivo smantellamento dello stato talebano in Afghanistan –  un brand,
un marchio di “qualità”, che identifica uno specifico prodotto, che viene
utilizzato, nei modi e nei mezzi, in franchising
dalle più disparate cellule terroristiche 
del mondo sunnita, che hanno solo lontani legami con Osama bin Laden ed
i suoi più stretti collaboratori. E’ notorio, infatti, che Al Qaeda nel
Maghreb, dall’aprile 2006 aveva riunito i militanti del gruppo storico
fondamentalista algerino, i Gspc, anche mediante l’apporto di militanti di origine
algerina che avevano maturato esperienza in altri teatri della lotta
fondamentalista.

La seconda lezione
viene dalla tipologia di bersagli delle esplosioni. A differenza delle
strategie utilizzate dal tradizionale fondamentalismo locale che, dopo il 1998,
finita la guerra civile tra i movimenti integralisti ed il governo laico,
limitava il confronto ad azioni contro le forze di sicurezza nelle periferie
algerine, la struttura diretta dall’emiro Abdelmalek Deroukdal preferisce
obiettivi altamente simbolici che dimostrino l’intenzione di osteggiare la
politica di conciliazione nazionale (più supposta che reale) del regime del
presidente Bouteflika. La scelta degli obiettivi non è caduta su dei simboli
della presenza “crociata” od occidentale in un paese islamico, ma sulle
istituzioni di uno stato che – da sempre – aveva fatto del laicismo e di un
certo “socialismo” il simbolo stesso dell’identità nazionale. Questo modello,
nato da una guerra di liberazione e dai compromessi che ne sono seguiti, in altri
periodi storici, non veniva solo studiato ed auspicato da una certa
intellighenzia araba, ma anche in Occidente. 
Non è certo un caso che nelle sezioni del PSI dei primi anni Sessanta si
discutesse se il modello da perseguire fosse quello titino o quello di  Boumedienne. La stessa strategia delle
centrali del terrore che si rifanno alla figura del miliardario saudita
colpisce,  così – come  “fuoco amico” – le pretese di quelle frange
intellettuali e politiche occidentali che, da anni, additano proprio le potenze
del Nord del mondo come prime responsabili del terrorismo islamico, che sarebbe
solo una esasperata resistenza del mondo arabo e musulmano verso il terrorismo
politico dell’Occidente.  D’altronde
basta il solo ragionieristico conto della tipologia dei bersagli degli
attentati del terrorismo di matrice Al Qaida per capire che il vero obiettivo
di bin Laden non è l’Occidente, ma quella parte del mondo arabo che cerca di
darsi un assetto laico e moderno. Anche se negli occhi di tutti sono ancora
dolorosamente vive le immagini di New York, Madrid e Londra è necessario
comprendere – al fine di capire il fenomeno – che quegli attentati erano, solo
in modo secondario, un segnale al mondo occidentale. I veri interlocutori erano
i “moderati” del mondo islamico, che cercavano un positivo confronto con i
“crociati”.

Il  combinato disposto delle prime due “lezioni”
porta alla terza. Nonostante i richiami ad un passato glorioso, il linguaggio
anacronistico ed un progetto teso alla ricostruzione di un improbabile califfato
(l’unità politica degli arabi è sempre stata un mito, già un secolo dopo la
morte del Profeta) le radici del fondamentalismo islamico hanno radici molto
fragili e tenere nel terreno della storia. Ancora negli anni Sessanta e
Settanta  del Novecento la componente
fondamentalista era minoritaria nel mondo islamico. Come ricorda Panella le
scuole islamiche di quegli anni poco o nulla studiavano i pensatori del
fondamentalismo, trattandoli come semplici curiosità. Lo stesso movimento
wahabita era conosciuto come fenomeno specifico dell’Arabia Saudita e strumento
politico della casa regnante.

Il fondamentalismo è
figlio del modernismo e del fallimento di molte ideologie di riscatto del mondo
laico. Negli anni Cinquanta Nasser, laico e portatore di valori e strategie
politiche prossime a quelle nazionalsocialiste, aveva infiammato il mondo arabo
creando innumerevoli emuli (tra cui il Gheddafi e Saddam Hussein). La fine
dell’utopia baathista ed il vuoto conseguente non venne opportunamente occupato
dalle classi dirigenti arabe “moderate” che lasciarono crescere una
insoddisfazione sia tra il ceto diseredato, sia tra parte degli intellettuali.
Questa frattura nel mondo arabo è diventato un brodo di cultura del
fondamentalismo. Se l’Occidente ha una colpa, questa è di avere cercato di
esportare  modelli ed idee propri che,
però, non appartengono al modo arabo. All’interno del convegno tenuto a Roma,
nelle stesse ore degli attentati di Algeri, il citato Lewis ha affermato che
sia la democrazia, sia la dittatura sono idee occidentali, sostenendo che la
dittatura nel Medio Oriente è un’invenzione, seguita alla modernizzazione
ispirata dall’Occidente. Basandosi su queste convinzioni lo studioso non vide
negativamente l’occupazione di Baghdad da parte americana, perché nel mondo
islamico vi erano tradizioni non di governo democratico, ma di governo
sottoposto alla legge, esercitato sulla base del consenso. Sulla scorta di
queste considerazioni si potrebbe, quindi, avere fiducia che la democrazia
riesca ad albergare nell’islam delle moschee e delle scuole coraniche.

Il modernismo arabo,
che ha portato sia alla nascita di regimi laici, sia del fondamentalismo
islamico, trova la sua fonte nella guerra fredda e nel processo di
polarizzazione, con il quale le due superpotenze “giocavano” a risiko nel
teatro planetario fuori dal nord del mondo. Per esse sembrava facile
assecondare ideologie “tradizionaliste” o “socialiste” se queste potevano
mettere in difficoltà l’avversario. Purtroppo, svegliato il mostro del riscatto
nazionale, questo non si è assopito dopo la fine della guerra fredda, ma ha
continuato a crescere. Se è vero che la guerra fredda – nata dalle ceneri della
seconda guerra mondiale – è stato il terzo e più grande conflitto planetario
(in parte nei modi, sicuramente negli effetti), è altrettanto vero che ha
provocato questa “guerra” contro il fondamentalismo che accompagnerà per molti
anni le relazioni internazionali del pianeta. Questo è e sarà il quarto
conflitto mondiale. La cosa importante da capire è che se i primi tre conflitti
si possono leggere come una guerra civile all’interno del mondo politico e
culturale occidentale, nel quale il resto del pianeta era solo un campo di
battaglia, quest’ultima guerra è un conflitto interno ad una diversa comunità
politica e culturale, quella araba ed islamica. In questo contesto l’Occidente,
pur con tutta la sua potenza economica e politica è ridotto a campo di
battaglia (con buona pace della nostra ubris
intellettuale).

Cosa può quindi fare
questo “campo di battaglia” per non vedere soccombere la possibilità di un Medio
Oriente “democratico” e pacificato? Lewis indica la strada nel riconoscimento e
nel sostegno a quelle “diversità” così radicate nel mondo arabo che meglio
possono accordarsi con il mondo occidentale.

Per ironia gli item fissati dal fine intellettuale
“orientalista” sono declinati, nella realtà da chi intellettuale non è: un
militare, il generale David H. Petraeus, comandante americano in Iraq. Egli,
decidendo di collaborare con la società civile irachena, indipendentemente dal
passato politico dei nuovi amici (ex baathisti, ex terroristi ecc.), facendo
uscire le truppe dalle grosse basi per farle vivere in mezzo alla popolazione,
accettando le diversità intrinseche di quel mondo potenzialmente ostile e,
soprattutto, occupandosi dei problemi minuti della popolazione sta lentamente
isolando sia le milizie sciite del “Mahdi”, sia le organizzazioni che si
ispirano ad Al Qaeda. Egli sta riuscendo a fare quello che non era riuscito a
decine di ONG che armate solo del loro innocente pacifismo non riuscivano a
fare ciò che è l’essenza della politica: 
mediare gli interessi degli attori in gioco.