E’ ora che l’Europa aiuti il Nordafrica a garantirsi libertà e democrazia

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E’ ora che l’Europa aiuti il Nordafrica a garantirsi libertà e democrazia

16 Agosto 2011

In questa estate infuocata dalla crisi economico-finanziaria che sta stritolando l’Occidente, non è il caso – anche se l’attenzione dell’Europa è rivolta altrove – di dimenticare quanto è avvenuto e continua a verificarsi nel Mediterraneo. In autunno la situazione potrebbe risultare ancora più grave di quella che è al momento, soprattutto in riferimento alle condizioni politiche nelle quali verrà a trovarsi la Siria di fronte al cui governo non basteranno certamente più le intemerate degli Stati Uniti o i flebili inviti alla ragionevolezza degli Stati europei. Riepiloghiamo, dunque.

Il Mediterraneo si è presentato nell’ultimo decennio come il concentrato delle grandi sfide politiche poste dalla globalizzazione: dalla promozione della democrazia ai conflitti culturali, dalla sicurezza energetica all’integrazione economica regionale. Nello stesso periodo, la retorica delle politiche statunitensi ed europee nell’area – basti ricordare i programmi dell’amministrazione Bush sull’esportazione della democrazia (con le armi, naturalmente) in Medio Oriente tra il 2004-2006 o il varo della Politica di Vicinato della Ue – è stata travolgente al punto da distorcere la realtà. Poi le impreviste rivolte del Nordafrica, spontanee e radicali in Tunisia e Algeria, e la vera e propria rivoluzione che ha infiammato l’Egitto favorendo l’accensione di alcuni focolai anche in Libano, Giordania, Yemen, fino ad arrivare a Damasco. Proprio in Siria, la cruenta repressione di questi giorni offre all’osservatore il quadro esatto della crisi che scuote il mondo arabo, nel cui ambito la guerra dell’Europa alla Libia va iscritta nel cospicuo libro delle follie politico-diplomatiche che caratterizza, con una costanza ormai impressionante, le relazioni del Vecchio Continente. Gheddafi è ancora al suo posto e le potenze europee sono divise sul da farsi. Non si vede uno sbocco e le conseguenze del bombardamenti vengono riposte nel dimenticatoio della politica internazionale.

La dimostrazione che l’effetto domino temuto nel mondo arabo-musulmano è diventato un vero e proprio contagio nell’area che si riteneva sostanzialmente stabile, a prescindere dall’endemico conflitto israelo-palestinese, è palese, ma il mondo Occidentale non sembra essere eccessivamente preoccupato dalle conseguenze generate dall’instabilità.

Ci si è chiesto nei mesi scorsi, come mai nei Paesei europei non si sia mai avuta la consapevolezza di ciò che poteva accadere dove il potere autocratico di alcune inossidabili nomenklature aveva impoverito le popolazioni e negato i diritti elementari. La risposta è semplice. Gli Stati Uniti e l’Europa hanno sempre favorito, anche di fronte a una evidenza che li avrebbe dovuti sconsigliare, la stabilità pro-occidentale dei regimi traballanti o caduti a scapito dell’incoraggiamento, come era da attendersi dopo i fatti iracheni, di reali processi di democratizzazione che si stavano manifestando nell’area e che soprattutto l’Unione per il Mediterraneo, ormai agonizzante, non ha saputo o voluto vedere. Quel che non hanno fatto i politici occidentali e i loro burocrati, l’ha fatto – com’è a tutti chiaro – il web, vero motore delle prime avvisaglie di democratizzazione dei Paesi della sponda Sud del Mediterraneo.

Se però nel passato remoto ed in quello più recente le amministrazioni Bush e Obama non hanno rinunciato a una Freedom Agenda, che in qualche modo compensasse l’obbligata necessità di affari e relazioni stabili con i governi rovesciati o in crisi, l’Unione europea ha abdicato al ruolo propulsivo nell’area, praticando pigramente un "bon usage" dell’autoritarismo che connotava quei regimi alleati dell’Occidente, forse per appagare un "neo-realismo svogliato".

L’esaurimento – un po’ perchè non ci ci ha creduto nessuno fino in fondo, un po’ per il blocco psicologico e politico del conflitto tra israeliani e palestinesi  – della politica euro-mediterranea delineata a Barcellona nel 1995, che prevedeva l’aiuto allo sviluppo politico dei regimi arabi verso la democrazia, non è stato superato dal varo dell’Unione per il Mediterraneo, che si è presto rivelata un "esperimento" fallimentare da tutti i punti di vista. I Paesi europei, a cominciare dall’Italia, hanno sempre proceduto in ordine sparso, concorrenti più che collaboranti. Di fatto la politica europea verso quest’area di fondamentale interesse strategico ha finito per privilegiare i rapporti commerciali ed economici a discapito di quelli politici. L’Unione per il Mediterraneo era nata nell’estate 2007 per iniziativa dell’appena eletto presidente Nicolas Sarkozy, e ratificata un anno dopo da tutti gli Stati interessati, con l’obiettivo di superare le divergenze emerse dal Processo di Barcellona. Se il focus su progetti in specifici settori tecnico-economici (disinquinamento del Mediterraneo, autostrade del mare, autostrada del Maghreb, ferrovia transmaghrebina, piano solare mediterraneo, promozione delle piccole e medie imprese) sembrava l’approccio migliore e più funzionale per fare avanzare la cooperazione – rafforzata o a geometria variabile – tra i paesi dell’Ue e i partner mediterranei, scindere il piano economico da quello politico si si è rivelato esiziale all’auspicato successo dell’iniziativa. Ciò è emerso anche in seno all’Apem, organizzazione parlamentare della quale fanno parte tutti i Paesi mediterranei, il cui impulso è stato pressochè nullo nel far avanzare dialogo tra le due sponde e la democrazia interna nei Paesi che se la stanno guadagnando con vittime e disordini.

Le vicende tunisine, egiziane, siriane e libiche hanno reso manifesto quanto l’Europa non sia stata in grado di comprendere i problemi dei partners del Mediterraneo e la richiesta di cambiamento che veniva da queste popolazioni. I ministri degli Esteri europei hanno ammesso che i Paesi occidentali non hanno saputo interpretare il complesso cambiamento che serpeggiava nelle nazioni arabo-musulmane mediterranee, ma ancora una volta non hanno parlato con una voce sola sottolineando in tal modo il ruolo marginale che sta giocando l’Ue. Quanto l’Egitto sia importante per l’Europa è testimoniato dal fatto che proprio il presidente egiziano, Hosni Mubarak, sia stato fino alla sua rovinosa caduta il co-presidente dell’Upm. Esso, fino ai recenti fatti, insieme con l’Arabia Saudita, è stato considerato la chiave di volta degli equilibri del Medio Oriente. È anche l’unico Paese arabo ad aver riconosciuto Israele. Dunque, un baluardo contro l’islamismo radicale, fenomeno ben visibile se si considera non soltanto al-Qaeda, ma anche l’evoluzione dei governi dell’Iran, della Siria, del Sudan, del regime saudita, di potenti gruppi d’influenza come Hamas e Hezbollah, in parte dei Fratelli musulmani, e molti altri.

Erroneamente pensavamo che nel Nordafrica e Medio Oriente ci fossero solamente singoli individui coraggiosi di orientamento "liberale", ma non esistesse un’opinione pubblica, una massa capace di sovvertire l’ordine costituito, quello dei regimi autoritari, l’amicizia dei quali sembrava obbligata. Ciò che è accaduto nelle piazze di Algeri, di Tunisi, del Cairo, di Damasco (Tripoli è un capitolo a parte e ben più drammatico) dovrebbe farci mutare orientamento. L’Europa dovrebbe considerare questa nuova realtà.

Le proteste popolari, prive di una chiara direzione politica e di leadership, ma anche di connotati islamici radicali, non dovrebbero far trascurare il fatto che la crisi nel Maghreb e in Medio Oriente potrebbe fornire all’Ue l’occasione per riacquistare credibilità presso il mondo arabo. Non si tratta di adottare politiche controproducenti tese a diffondere secondo modelli occidentali la democrazia con la forza, ma di essere riferimento e fornire aiuti economici, sociali e culturali a favore della società civile e delle forze disponibili all’avvio di un processo di partecipazione popolare nelle istituzioni.

Insomma, la crisi dei Paesi nordafricani ci ha permesso di comprendere che la stabilità non può essere perseguita a scapito della libertà, della tutela dei dritti umani e della democrazia. L’Europa sarà in grado di prenderne atto e agire di conseguenza?