E ora sarà “hard Brexit”?

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E ora sarà “hard Brexit”?

16 Gennaio 2019

Con la storica sconfitta, in quanto a proporzioni (202 gli “ayes”, contro i 432 “nays”, di cui più di 100 del partito di May, i Tories), del governo di Theresa May, verso il quale la Camera dei Comuni ha respinto martedì scorso l’accordo pattuito con l’Ue su una soft Brexit, non solo lo scenario di un’uscita “hard” (un “no deal” vero e proprio) della Gran Bretagna diventa ogni giorno una possibilità sempre più concreta, con una catastrofica caduta dell’esecutivo inglese ora in carica, ma si ripropone, con forza, quella funzione secolare dell’isola continentale. Un ruolo e una posizione che le pseudo-élites mondializzate faticano a comprendere. Appare evidente che la Gran Bretagna è tornata a lottare contro ogni forma di Stato: soprattutto contro il “Leviatano” – è questa la considerazione che si ha, da parte di gran parte del popolo inglese che si è espresso nel referendum del 2016 – dell’Ue. L’Inghilterra, piaccia o no, vuole tornare ad essere quella che il grande filosofo del diritto tedesco, Carl Schmitt, definiva come «una nave che si stacca dalla terra e salpa alla conquista degli oceani». Insomma, una «nave pirata», senza più lacci continentali, diretta in «mare aperto». E senza nessuna “special relationship” con gli Usa, Trump o no Trump.

Dunque, una rinnovata rivoluzione spaziale, contro il tentativo fagocitante di un mondo tentacolare – nelle speranze e nei propositi dei globalisti – sempre più indifferenziato. La “deep” Great Britain ora punta apertamente a giocare di nuovo un ruolo primario sul palcoscenico mondiale, proprio per svincolarsi da questa prospettiva totalizzante, a partire da un accordo con la Cina, anche se ogni ambizione commerciale potrebbe essere cancellata dalle preoccupazioni sulla sicurezza, poiché l’invadenza di Pechino fa tremare i polsi anche a Londra. Anche con l’India, nel cassetto c’è una sorta di agreement. Difficile a priori, certo, perché gli indiani sono negoziatori duri e sguscianti, i quali poi chiederebbero una liberalizzazione dei visti per studio e lavoro che nell’Inghilterra della Brexit sarebbe un controsenso. Ma gli accordi potrebbero già essere in corso d’opera. Non manca l’Australia, paese del Commonwealth, negli obiettivi della Gran Bretagna.

Anche se i cugini di Down Under appena possono fanno lo sgambetto alla madrepatria, per esempio chiedendo in sede Wto (il World Trade Organization) quote maggiori per i prodotti agricoli. Pertanto, anche se il passato imperiale non regala sconti, e in qualche caso resuscita vecchi risentimenti, non è detto che la «nave pirata» non possa ricominciare a riguadagnare terreno su scala mondiale, forse adottando proprio la tecnica trumpiana di accordi bilaterali con ciascuno degli Stati interessati. Certo, c’è anche uno studio del Tesoro britannico, il quale afferma che eventuali accordi con tutti questi partner non compenserebbero le perdite conseguenti all’uscita dall’Ue. La quale, da parte sua, nel frattempo ha raggiunto, essa sì, ottime intese con Giappone, Canada e Sud Corea. Ma non è scontato che la storia non si rimetta in moto, su nuovi (anche se collaudati) binari. E, ancora una volta, a causa di un «acceleratore», diversamente da altre potenze del passato, «volontario».