E’ passato un anno ma sugli 8 italiani dispersi in Venezuela è ancora giallo

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E’ passato un anno ma sugli 8 italiani dispersi in Venezuela è ancora giallo

14 Maggio 2009

Venerdì 4 gennaio 2008 l’aereo “Yanky Victor 2081” della Transaven sparisce al largo di Los Roques, in Venezuela, nell’arcipelago caraibico che conta circa 350 tra isole e isolotti. Tra i dispersi ci sono 8 italiani: la coppia romana dei Fragione (Stefano e Fabiola Napoli), la famiglia trevigiana dei Durante (Paolo, la compagna Bruna Guerrieri e le due figliolette Sofia ed Emma), le bolognesi Annalisa Montanari e Rita Calanni. Da allora non si sa che fine abbiano fatto.

Debora, la sorella di Fabiola Napoli, non si accontenta delle risposte offerte fino ad ora dal governo venezuelano; tantomeno del lavoro svolto dall’Unità di crisi della Farnesina e dalla magistratura romana, o delle diverse piste seguite da esperti e giornalisti. “Resisto grazie all’ironia e alla rabbia”, dice con amarezza ed è  naturale visto il dolore che sta provando. Ma non ha ceduto alla disperazione. Nove mesi all’oscuro di tutto. E’ più o meno tanto il tempo che i familiari hanno dovuto aspettare prima che il magistrato italiano titolare dell’inchiesta richiedesse ai suoi omologhi venezuelani i documenti sul caso, che non sono ancora stati spediti da Caracas. C’è il segreto istruttorio ed è inutile contattare il magistrato della Procura di Roma. I tempi però parlano da soli: “Abbiamo denunciato la scomparsa dei nostri cari il 16 gennaio del 2008 – ci dice Debora – e fino allo scorso settembre la magistratura è stata con le mani in mano”. Questa inerzia ha spinto le famiglie ad avanzare 4 esposti, al Consiglio Superiore della Magistratura e al Ministero della Giustizia, per sapere come stavano procedendo le indagini.    

“Lo Stato italiano non sta facendo niente per noi – aggiunge polemicamente ma comprensibilmente la donna – ci sono state lacune e voragini nell’aiuto fornito ai familiari”, anche se, va detto, l’Unità di crisi non può entrare in conflitto con le indagini della magistratura che a sua volta ha tempi tutti italiani. Non è semplice parlare con chi si occupa di questa vicenda alla Farnesina. Ci abbiamo provato scontrandoci con un piccolo muro fatto di lentezze burocratiche e qualche scarica barile. L’ufficio stampa dell’Unità di crisi fa sapere di non poter affrontare la questione con i media perché, nel frattempo, doveva essere aperto un tavolo interministeriale presso la segreteria della presidenza del Consiglio. Debora però ci spiega che il “tavolo” l’avevano richiesto proprio i familiari e che il gruppo di lavoro non è stato ancora istituito. L’ex segretario generale di Palazzo Chigi, Mauro Masi, si era impegnato (seriamente) a seguire di persona la vicenda per conto di Berlusconi ed ha incontrato 4 volte i familiari tra l’estate del 2008 e lo scorso aprile. Poi Masi è stato nominato direttore generale della Rai ed al suo posto è arrivato Manlio Strano che adesso si troverà a mettere il punto a questa storia.

Da Caracas arrivano notizie frammentarie. Lo scorso febbraio c’è stata una perquisizione della polizia nella sede della Transaven che non ha portato a nulla. Si attende una decisione della magistratura locale. Così Debora ha deciso di partire. Da sola o con chi volesse aiutarla. Il 17 maggio prenderà un aereo per raggiungere il Venezuela: la magistratura locale potrebbe archiviare il caso e c’è bisogno di coordinarsi con il legale che rappresenta le ragioni delle famiglie italiane nei tribunali venezuelani. L’Unità di crisi si è comunque offerta di seguirla, offrendole un interprete per muoversi più a suo agio durante la permanenza a Caracas. E non solo un interprete, come vedremo.

 

I misteri sull’incidente. Di un aereo che è caduto in mare qualcosa si dovrebbe ritrovare. Invece niente, neppure un pezzo. Le autorità di Caracas si sono rassegnate ad eseguire delle ricerche “random” nell’arcipelago sperando in un colpo di fortuna. “Onestamente – ci dice il comandante Pica, il consulente nominato delle famiglie – basta un po’ di buonsenso per capire che una cosa è effettuare delle ricerche ‘a rastrello’, partendo dall’ipotetico punto in cui sarebbe avvenuto l’ammaraggio per poi perlustrare le zone circostanti, e ben altra cosa eseguire delle indagini qua e là che a mio parere sono perfettamente inutili”. Pica sottolinea che la prima fase delle ricerche è stata portata avanti in grande stile dalle autorità venezuelane, con dozzine di mezzi militari (navi, elicotteri, personale a terra), idrofoni (sensori per la rivelazione acustica, ndr) e boe-sonar. Come dire, se l’aereo fosse caduto dov’è stato cercato i venezuelani l’avrebbero trovato. “Quando Debora  mi ha chiamato – aggiunge il comandante  – e ho avuto modo di leggere la documentazione, mi sono fatto l’idea che non c’è stato alcun incidente. Non ho prove che non c’è stato, non ho prove che c’è stato, quindi restano aperte tutte le ipotesi”. Il comandante sarà a Caracas con Debora per studiare i documenti della magistratura venezuelana.  

Qualcosa, anzi, qualcuno, è tornato a galla. Il cadavere dal volto sfigurato del co-pilota dello Yanky Victor. Ma qui iniziano i misteri. Non è stato ancora fatto un esame del DNA dell’uomo; quando è stato ripescato, nei suoi polmoni non c’era acqua e l’orologio Casio che aveva al polso funzionava perfettamente. Un po’ strano per uno che è annegato. Si tratta davvero del co-pilota? Il secondo mistero è legato a una registrazione tra il capitano del volo e la Torre di Controllo, comunicazione avvenuta il giorno della disgrazia. Il capitano dice che sull’aereo si trovano 18 persone ma a terra ne erano state registrate 14. Chi erano gli altri 4 passeggeri? Questo indizio ha sollevato il sospetto del dirottamento aereo. Rafforzato dal terzo mistero che riguarda alcune telefonate, per esempio quelle partite dal cellulare di Annalisa Montanari. Se stiamo all’orario in cui l’aereo è precipitato, gli squilli sarebbero arrivati dritto dal fondo dell’oceano. Le autorità venezuelane smentiscono questa notizia ma nei documenti forniti dal comandante della nave che ha condotto le ricerche per conto del governo venezuelano c’è scritto che, 2 ore dopo l’incidente, è stato captato il segnale del cellulare del copilota, acceso. Gli esperti delle telecomunicazioni sanno che da un tabulato del genere si potrebbe risalire grosso modo al punto in cui si trovava la persona che stava telefonando. Il tabulato in questione però non è completo, è stato modificato prima di consegnarlo agli investigatori e ai legali delle famiglie. “E’ un grosso dubbio” che Debora aspetta di avanzare di fronte ai magistrati venezuelani.

 

La versione dell’ammiraglio. Abbiamo chiesto all’ammiraglio Giovanni Vitaloni di aiutarci a fare chiarezza. Vitaloni, attualmente in forze alla Protezione Civile, è uno dei consulenti che ha seguito per conto dell’Unità di crisi la storia dello Yanky Victor. Nel 2005 coordinò le ricerche dell’Atr-72 precipitato in mare al largo delle coste siciliane. Con la disponibilità e il pragmatismo tipici dell’uomo di mare, ci offre un quadro un po’ diverso sui misteri di Los Roques. Il co-pilota? Quando il suo cadavere è stato ritrovato aveva il torace sfondato e tutti i denti spaccati. “Forse ha cercato di lanciarsi dall’aereo durante l’ammaraggio – sostiene l’ammiraglio – ed è morto subendo qualche genere di trauma prima dell’impatto. La vittima avrebbe continuato a galleggiare e questo spiegherebbe perché non ha acqua nei polmoni”. Un cadavere alla deriva non respira. Se mai si sposta, “anche cento miglia dal punto dell’incidente, in base alla forza delle correnti”. Inutile, quindi, pensare che l’aereo si trovi nella zona dov’è stato ritrovato il cadavere. E il mancato esame del DNA? “I familiari del co-pilota non l’hanno richiesto – deve ammettere l’ammiraglio – e questo in effetti fa venire qualche dubbio”.

Vitaloni è convinto che sull’aereo ci fossero 14 e non 18 passeggeri. Deve esserci stato qualche errore nella registrazione delle carte d’imbarco e in ogni caso c’è un documento sottoscritto dal pilota che attesta la presenza di 12 persone a bordo più i 2 piloti. La spiegazione potrebbe essere un’altra: la sigla sulla fiancata dell’aereo era “2081” e quel “18” che gli investigatori attribuiscono al numero dei passeggeri, in realtà, sarebbero le ultime due cifre del volo ripetute dal pilota mentre si teneva in contatto con la Torre di Controllo (“Ocho uno! Ocho uno!”). “In ogni caso – suggerisce Vitaloni – converrebbe riascoltare quella registrazione con qualche sistema di lettura rallentata; nel frammento che abbiamo si sente il copilota dire qualcosa a bassa voce al capitano dell’aereo…”. Bisogna anche chiedersi perché mai il capitano dello Yanky Victor avrebbe dovuto segnalare la presenza a bordo di eventuali dirottatori se gli stavano puntando una pistola alla testa. Probabilmente avrebbe confermato che a bordo si trovavano solo 14 persone.

Le telefonate. Qui il discorso si fa tecnico e complesso e non c’è tempo per ricostruirlo tutto. Emergono due piste. La prima, che l’aereo non sia finito nell’oceano e invece si sia conficcato nell’intrico di mangrovie che caratterizzano gli isolotti dell’arcipelago. Ecco perché a distanza di qualche ora vengono ancora captati dei segnali. “Sfido chiunque a farsi strada tra le mangrovie – commenta l’ammiraglio – ci vuole un machete. Se l’aereo è finito là in mezzo non sarà facile ritrovarlo”. Resta il dettaglio del tabulato incompleto e, come per il Dna del co-pilota, Vitaloni deve arrendersi di nuovo all’evidenza che non tutti i conti tornano. “Spero davvero che quando saremo a Caracas – partirà anche lui con Debora – la magistratura possa fornirci il tabulato”.  

Per fortuna che c’è almeno l’ammiraglio Vitaloni a difendere il lavoro, che pure c’è stato, della Farnesina: “La nostra ambasciata a Caracas si è mossa fin da subito e con grande sforzo per venire a capo di questa storia. Il capo dell’Unità di crisi, Fabrizio Romano, non ha mai mollato perché sente di avere una responsabilità verso le famiglie”.

 

I rischi di un viaggio in Venezuela. Il caso dello “Yanky Victor” è solo l’ultimo di una lunga serie. Nel marzo del ’97 ci fu un altro incidente simile. Anche allora i passeggeri registrati a bordo erano 8 ma il pilota ne dichiarò 11. L’aereo scomparso apparteneva alla stessa compagnia, la Transaven. Negli ultimi anni sono circa una settantina gli aerei scomparsi in questo Triangolo delle Bermude che si trova poco più a sud di quello reso celebre dal bestseller di Berliz. L’aviazione civile venezuelana è vecchia ed obsoleta, basta dare un’occhiata al suo portale per capirlo. Il bimotore su cui erano saliti gli italiani volava dal 1987 ed era destinato alla rottamazione. Il modello cecoslovacco “Let 410” ha fatto registrare un centinaio di incidenti (350 vittime) sui mille e rotti esemplari entrati in linea dal 1971. In Europa per lungo tempo non è stato certificato dalle autorità dell’aviazione civile. Molto spesso la causa degli incidenti era il mancato funzionamento dell’apparato propulsivo dell’aereo (in pratica uno dei motori si è fermato in volo). "In certi Paesi la sicurezza degli aerei non è scrupolosa come nel mondo occidentale – dice l’ammiraglio Vitaloni – quando ho incontrato il magistrato venezuelano gli ho chiesto come mai l’idrofono e le altre strumentazioni per il rilevamento non abbiano dato risultati. Sarebbe interessante capire se l’aereo aveva un transponder subacqueo, perché in quel caso avremmo sentito un rumore distinto, un suono chiaro come un toc-toc".  

Ci sarebbe stata un’altra comunicazione tra il capitano dello Yanky Victor e la Torre di Controllo di Los Roques. Il pilota avrebbe detto che entrambi i motori del velivolo si erano spenti e che l’ultima carta da giocare era l’ammaraggio; la comunicazione però si interrompe prima dell’impatto. Stavolta viene in soccorso il comandante Pica: “E’ possibile che un motore si fermi ed io ho stesso ho pilotato mezzi in situazioni del genere, ma che tutti e due i motori si fermino contemporaneamente è impossibile, è come vincere un terno al lotto al giorno”. Lo S.O.S. lanciato dal pilota non è stato registrato dalla Torre di Controllo ma fa parte della relazione stilata da un controllore di volo che afferma di aver sentito la voce del capitano dello Yanky Victor. Ma come mai il pilota si zittisce dopo che si era accorto del guasto? “Se ho 2 motori piantati – dice Pica – la mia autonomia è al massimo di un paio di minuti e la prima cosa che faccio è dire dove mi trovo…”. 

Chissà se il tour-operator che ha venduto ai nostri connazionali i biglietti per la vacanza dei loro sogni li aveva anche informati sullo stato dell’aviazione venezuelana. Probabilmente no. Si sarà limitato a declamare le bellezze ambientali del Parco Naturale di Los Roques, le immersioni subacquee e il giro in barca a vela. In realtà, come ha scritto La Stampa, “l’industria turistica chavista è fatta di piccole e piccolissime compagnie private, pressapochismo all’ordine del giorno, scarsi controlli da parte di chi dovrebbe farlo, deregulation assoluta nel Paese della rivoluzione bolivariana e socialista”. Ogni anno arrivano nell’arcipelago circa 70.000 visitatori, molti italiani. Certo, nel sito “Viaggiare Sicuri” curato dal ministero degli esteri  si parla delle “precarie condizioni della sicurezza in Venezuela” e dei sequestri di cui sono rimasti vittima numerosi turisti, ma senza riferimenti precisi al caso dello Yanky Victor. Forse la Farnesina dovrebbe fare di più nel sostenere delle campagne di informazione e sensibilizzazione per sconsigliare gite in mete pericolose come questa.

Una lettore italo-venezuelano ci ha scritto: “Nel Venezuela di Chavez hai paura di girare per le strade, di essere ucciso per un paio di scarpe, c’è insicurezza nello spostarsi in giro per il Paese; tutte cose che i turisti non sanno quando si imbarcano entusiasti sugli aerei locali. Chavez è al corrente della scomparsa dei nostri 8 concittadini ma durante una delle sue estenuanti cadenas in diretta televisiva ha solo accennato di sfuggita alla vicenda… Non posso non considerare il pericolo che corrono tutti gli italiani che intendono andare in vacanza in Venezuela. Chiedo loro di pensarci bene e di valutare il rischio, perché spesso il soggiorno si conclude in maniera drammatica”.

L’ammiraglio Vitaloni la pensa diversamente: “Ho viaggiato a lungo nella mia vita e le assicuro che se lei va Caracas e segue attentamente le norme sulla sicurezza potrà visitare tranquillamente la città. Ora è logico che se sei un turista con un Rolex d’oro e finisci in un quartiere degradato può succederti qualcosa. Ma potrebbe capitarti lo stesso in qualsiasi città italiana”. Opposto anche il giudizio sull’operato di Chavez: “il presidente venezuelano sta portando avanti le ricerche sul caso dello Yanky Victor molto attentamente, perché su quel volo viaggiava anche uno dei familiari di un suo amico”. Vitaloni ricorda la prima volta che incontrò il procuratore venezuelano a Caracas, subito dopo l’incidente. “L’uomo aveva le lacrime agli occhi e mi disse ‘troveremo i colpevoli se ce ne sono’”. L’ammiraglio crede davvero che “i venezuelani stavolta, e per la prima volta dopo tanti incidenti, si stanno dando da fare, hanno una posizione favorevole verso l’Italia. Ma vogliamo sapere tutto sui documenti di cui dispongono”.

 

La pista del narcotraffico. Il traffico degli aerei rubati è un affare lucroso nel grande traffico di coca che unisce Caraibi Messico e Stati Uniti. I narcotrafficanti usano il modello “Let 410” perché si tratta di un aereo militare capace di decollare su piste improvvisate. Più conosciuti come “narco-aviones”, questi criminali infilano strane miscele di sabbia e zucchero nei motori degli aerei di linea dove salgono i loro avversari per farli esplodere in volo. Più di 60 velivoli sono stati dirottati in Venezuela dall’inizio degli anni Sessanta, oltre un centinaio di persone sono scomparse. L’incidente dello Yanky Victor potrebbe essere stato un regolamento di conti ad alta quota?

Il governo venezuelano tende a negare la pista del dirottamento ma che la zona sia infestata di narcos non è una novità. Dobbiamo anche chiederci quale sia il livello di professionalità della magistratura venezuelana. Un giudice locale se la sentirebbe di indagare sui trafficanti di qualche pericolo cartello colombiano per soddisfare le richieste di un Paese lontano come l’Italia? La polizia venezuelana è corrotta ed è difficile trovare delle prove.

Ad oggi le ricerche sono ufficialmente terminate e si aspetta il rapporto finale della ATM, la compagnia incaricata da Caracas. L’esito sarà negativo ma servirà almeno a capire in che modo sono state compiute le indagini. Quando ti risponde dal suo ufficio in uno studio commercialista di Treviso, la voce di Sabrina Durante – la sorella di Paolo – è dolcemente malinconica. “Diamo credito a tutto – dice – anche noi non escludiamo la tesi dell’inabissamento. Ma vogliamo capire perché certi aspetti della ricostruzione fornita dal governo venezuelano non collimano. Provo sentimenti altalenanti. Voglio più verità, sì, certo, più verità… ma qual è la verità?”.