E’ possibile dare una pensione ai giovani senza metterci le mani in tasca?
09 Giugno 2011
Sarebbe un mezzo miracolo riuscire ad accrescere le future pensioni dei giovani senza incrementi di contributi, cioè senza mettere le mani nelle tasche dei contribuenti, lavoratori e/o imprese, che già pagano oneri previdenziali elevati. Un altrettanto mezzo miracolo sarebbe anche riuscire a ridurre la zavorra del deficit pubblico, senza sacrificanti manovre finanziarie con aumento di tasse e di nuovi balzelli. Riuscire in entrambi gli intenti, senza chiedere un solo euro agli italiani, sarebbe addirittura fenomenale.
Massimo Mucchetti (Corriere di martedì 7 giugno: come si incoraggiano i giovani alla previdenza integrativa), avrebbe questa soluzione unica. Una soluzione, cioè, capace di realizzare entrambi i mezzi miracoli di arrotondare le pensioni, magre per tutti e magrissime per tanti giovani, e al tempo stesso di ridurre un po’ il deficit pubblico. La soluzione, ben argomentata, ruota attorno alla previdenza integrativa: i fondi pensione, tanto per capirci, ai quali oggi aderisce solo il 27% dei lavoratori dipendenti. A dirla in breve, la soluzione sarebbe questa: trasformare il pilastro delle pensioni integrative, che è un pilastro “privato” per definizione, in “previdenza integrativa pubblica”. Ossia, facendo destinare all’Inps i contributi (Tfr incluso) oggi versati ai fondi pensione, che sono imprese a tutti gli effetti che operano per il tramite di banche e gestori specializzati sui mercati finanziari.
Mucchetti parte da un’analisi della situazione dei giovani del 2011, prendendo spunto dal “Rapporto sullo Stato sociale 2011” di Felice Roberto Pizzuti. Oggi i giovani sono meno numerosi di un tempo, la formazione è più ricca, erediteranno patrimoni accresciuti; eppure hanno perso la certezza dei padri in un futuro migliore da lavoratori e, poi, da pensionati. Infatti, se fino a prima degli anni Novanta un ex dipendente con 40 anni di contributi e 60 anni di età poteva contare su una pensione pari al 77% dell’ultima paga, un giovane di oggi con le stesse caratteristiche che andasse in pensione nel 2035 avrebbe una pensione pari al 58% del salario, che potrebbe arrivare al 66% rinviando l’uscita dal lavoro a 65 anni. Questo taglio delle pensioni, spiega Mucchetti, si basa sul passaggio dal regime retributivo a quello contributivo e sull’adeguamento dell’età pensionabile alle aspettative di vita, misure che sono state perseguite dai governi per evitare che il crescente numero di anziani facesse fallire le casse previdenziali, Inps in testa.
A questo punto, l’articolo introduce il tema del secondo pilastro previdenziale. Scrive Mucchetti: per dare una speranza ai tartassati si è varata la previdenza integrativa, ma senza troppo successo. Per due ragioni: mancano i soldi da versare; latita la fiducia nei mercati finanziari cui si rivolgono i fondi. E arriva al dunque della sua proposta: "il governo potrebbe subito fare di meglio: offrire una nuova chance (…) e consentire a chi lo crede di incrementare comunque la contribuzione al sistema pubblico, con il duplice effetto di tonificare un po’ le pensioni prossime venture e di regalare maggior flessibilità al bilancio dello Stato". Il fulcro della proposta di Mucchetti è, dunque, questa “nuova chance” da offrire ai lavoratori: poter incrementare la contribuzione al sistema pubblico con la “costituzione di un fondo complementare Inps”.
A dare maggiore appeal alla proposta ci pensano le simulazioni. Mucchetti ipotizza il versamento volontario di 60 euro mensili (20 il dipendente e 40 l’impresa) di un individuo di 35 anni che va in pensione a 65 anni, assumendo la rivalutazione pari a quella del Tfr (1,5% più i 3/4 dell’inflazione): riceverà un’integrazione di 139 euro per 13 mensilità o un capitale di 52 mila euro, avendone pagati personalmente 12 mila nel periodo. C’è di più secondo Mucchetti. C’è l’effetto “macroeconomico”: con l’adesione del 30% dei lavoratori, tra il 2012 e il 2025 si accumulerebbero 58 miliardi di euro con cui ripianare il deficit pubblico. In conclusione, si avrebbero due effetti: a) l’incremento, a chi stacca la spina a 65 ani, della pensione dal 66 al 73% del salario; b) maggiori entrate per il bilancio pubblico pari all’1,4% del Pil, cioè 20 miliardi l’anno.
Per quanto affascinante, la proposta di Mucchetti è invece solo e soltanto un terribile boomerang per i conti pubblici e per la tranquillità e la serenità (proprio) delle giovani generazioni a cui si rivolge. Piuttosto che risolverli, infatti, minerebbe ulteriormente i problematici conti del bilancio pubblico e delle future pensioni dei giovani di oggi. L’idea di Mucchetti sembra figlia della scarna ideologia statalista dove il “pubblico”, lo Stato, tutto può e anzi tutto deve ai cittadini: un’idea di welfare “dalla culla alla tomba” non più sostenibile, oltreché ingiustificabile. La stessa idea che la sinistra comunista al governo, nel 2006, tentò in ogni modo di far passare quando venne anticipata la riforma della previdenza integrativa e che riuscì soltanto “nell’esproprio proletario” del Tfr dalle casse delle imprese, e che oggi è finito sul groppone delle giovani generazioni: l’idea, cioè, di statalizzare anche la previdenza integrativa, mediante il generalizzato aumento dell’aliquota contributiva dovuta all’Inps di un 6,91% almeno (quanto è oggi il Tfr dei dipendenti).
La proposta non regge per diverse ragioni. La più preoccupante, che al tempo stesso è inefficace sia a migliorare la pensione dei giovani che a ridurre il deficit pubblico, è proprio questo affidare al “gestore pubblico” – l’Inps – l’attuale sistema di previdenza integrativa che oggi, per fortuna delle giovani generazioni (per lo Stato), funziona con il “sistema di finanziamento a capitalizzazione” (che è l’opposto del “sistema di finanziamento a ripartizione, secondo il quale operano gli enti di previdenza pubblici, e al quale finirebbe a sottostare anche la previdenza integrativa secondo l’idea di Mucchetti).
Con il sistema a ripartizione, vengono impiegati i contributi dei lavoratori (gli attivi) per pagare le pensioni ai lavoratori a riposo (gli inattivi); di tale legame è garante lo Stato che induce nel tempo le diverse generazioni a un comportamento forzosamente solidale. Con la capitalizzazione, invece, ogni lavoratore è padrone e artefice del proprio destino pensionistico: la sua pensione è determinata dal totale dei contributi versati e i relativi interessi (montante contributivo), effettivamente maturati sui mercati finanziari. Nella ripartizione, pertanto, sono altri (gli attivi) a sostenere l’onere della solidarietà; nella capitalizzazione ognuno pensa per sé, ma il suo risparmio previdenziale per lunghi decenni è comunque al servizio del bene collettivo (cfr. Giuliano Cazzola).
Secondo la proposta di Mucchetti, dunque, l’Inps, funzionando con il “sistema di finanziamento a ripartizione”, finirebbe per trasformare in “pubbliche” anche le “pensioni integrative”: pensioni cioè il cui pagamento dovrà essere finanziato non dagli stessi soldi versati dal pensionato quando era un lavoratore (come avviene oggi con i fondi pensione), ma dai contributi pagati dai lavoratori attivi. E qui si cela il “trucco” della riduzione del deficit pubblico indicato da Mucchetti: con la trasformazione della previdenza integrativa da “capitalizzazione” a “ripartizione” verrebbero subito in disponibilità dello Stato – e per un certo numero di anni, cioè il tempo necessario a maturare il “diritto” alle pensioni integrative – le risorse versate dai lavoratori e non ancora usate per pagare le prestazioni. Un po’ come è successo con la Gestione Separata Inps e con il fondo Tfr per le imprese con almeno 50 addetti. Risorse, cioè, che costituiscono a tutti gli effetti una sorta di tassazione, fantasma, invisibile, a carico delle future generazioni e quindi del futuro bilancio pubblico.
E’ vero, come dice Mucchetti, che se un lavoratore versasse 60 euro mensili dopo 30 anni avrebbe diritto a una rendita aggiuntiva di oltre 130 euro mensili. Ma perché questo risultato deve essere perseguito statalizzando la previdenza integrativa (cioè versando i 60 euro all’Inps) e non attraverso gli attuali fondi pensione? Sarà, forse, perché i rendimenti dei fondi pensione sono bassi, in quanto vincolati ai mercati finanziari, mentre all’Inps si potrebbe imporre un rendimento standard, tipo l’1,5% maggiorato dei tre quarti dell’inflazione come suggerisce Mucchetti. Se è così, la soluzione è del tutto inconveniente proprio per le giovani generazioni, le quali si troverebbero un domani a dovere pagare questa cambiale del rendimento infruttuoso, perché orfano di un reale investimento sui mercati finanziari. Facendo un calcolo sui 20 miliardi di euro ipotizzati da Mucchetti come risparmio per il bilancio dello Stato e immaginando un’inflazione attorno al 2%, l’onere aggiuntivo (la tassazione fantasma), a carico delle giovani generazioni, sarebbe attorno al miliardo di euro annuali.