E se i ragazzi avessero solo bisogno d’ascolto?

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E se i ragazzi avessero solo bisogno d’ascolto?

17 Luglio 2007

Sara, 13 anni, si chiude in camera ogni giorno più spesso. Finché decide di non uscire più dalla stanza. I genitori prima reagiscono con urla e minacce. Poi, impauriti, le portano il cibo in camera. Iniziano a farle prediche e a chiederle perché li faccia soffrire così. Sara risponde “forse finalmente vi accorgerete che esisto e mi ascolterete”.

Sicuramente a 13 anni si è in piena crisi. Si vuole crescere ed essere adulti ma contemporaneamente se ne ha paura, ci si vuole identificare opponendosi ai genitori, cosa tutt’altro che facile, ma allo stesso tempo si sente il bisogno di coccolati. Detto ciò, quello che emerge da questa storia e da molte altre analoghe è la richiesta di ascolto da parte dei ragazzi.

L’ascolto è diventato merce rara, tra insegnanti e allievi, figli e genitori, amici, compagni di lavoro. Sembra non ci sia né il tempo né l’attitudine per ascoltare. I ragazzi, però, ne hanno molto bisogno soprattutto a questa età. Sono tanti i pensieri, le riflessioni, i dubbi, le paure le incertezze e i problemi che devono affrontare e per i quali spesso non hanno risposte, o perlomeno pensano di non averle.

Basterebbe un ascolto vero, attento e autentico per far sì che essi possano trovare da soli la soluzione alle loro difficoltà. Se si sentono accolti empaticamente, hanno la possibilità di comunicare il loro stato d’animo: già questo permette loro di recuperare, di riemergere, di trovare un’idea, di immaginare una soluzione. La condivisione permette ai ragazzi di sedare la paura di non farcela. E nello stesso tempo, l’ascolto consente loro di trovare in sé stessi le risorse che pensavano di non avere o di avere perso. Oggi però sembra che nessuno sia più disposto o capace di offrire agli altri questo tipo di ascolto. Non si tratta dell’interrogatorio sbrigativo che si fa in macchina o al rientro a casa.

Gli adulti sono piuttosto impegnati a dire, a progettare e a programmare i percorsi dei propri figli, spesso tenendo presente più le proprie aspirazioni che quelle dei ragazzi. C’è la delega ai vari operatori, sportivi o insegnanti, che intrattengono nelle più svariate attività e lezioni i ragazzi. I quali sanno sempre di più, ma sono sempre più fragili e soli. Si delega a qualcun altro il tempo del proprio figlio, ma anche questo è un tempo pieno, programmato. Non c’è vuoto, silenzio, ascolto, osservazione. Non si dà spazio alla loro necessità di comunicare e ai loro bisogni, c’è sempre una lezione da impartire, c’è sempre da dire e mai da ascoltare.

Un modo di relazionarsi, appunto, che  non lascia spazio al dialogo. E sempre più frequentemente i genitori sono gli ultimi a sapere cosa accade ai propri figli. I gesti come quello di Sara sono spesso una richiesta di aiuto, di ascolto. Una messa in scena per attirare l’attenzione dei genitori.