E’ tempo di interrogarsi “laicamente” sull’uso dei collaboratori di giustizia

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E’ tempo di interrogarsi “laicamente” sull’uso dei collaboratori di giustizia

01 Maggio 2010

Cari amici,

innanzi tutto grazie per essere qui presenti, e un grazie di cuore agli illustri relatori che hanno accettato l’invito di Magna Carta a confrontarsi su un tema del quale la storia recente del nostro Paese ma anche le cronache degli ultimi mesi ci hanno rivelato l’urgenza.

Non è questo mio breve intervento introduttivo la sede adatta a ripercorrere i ripetuti abusi e i casi di vera e propria deviazione nell’utilizzo dei collaboratori di giustizia che nel corso degli anni, spesso in combinato disposto con l’evanescente imputazione di "concorso esterno", hanno macchiato la storia dell’antimafia, infliggendo un calvario agli innocenti e avvelenando la vita pubblica. Non mi soffermo neppure sulla coincidenza che vede questo nostro incontro cadere ad appena due giorni dalla pubblicazione di un’intercettazione telefonica che avrebbe avuto ben altra risonanza se fosse stata funzionale a sostenere le accuse nei confronti del senatore Dell’Utri e non, come invece è, a sollevare seri interrogativi su come queste accuse si sono formate nel tempo. Quante puntate di talk show televisivi, quante edizioni straordinarie di eminenti quotidiani nazionali avremmo avuto se invece di affermare che gli avevano offerto un seggio in Parlamento per far mettere d’accordo i pentiti che accusavano Dell’Utri, l’avvocato Donnarumma avesse rivelato per telefono di aver subìto pressioni di senso contrario?

Non è questo mio saluto, dicevo, la sede per enumerare la lunga serie di storture che, da Balduccio Di Maggio a Gaspare Spatuzza, hanno trasformato un importante strumento di contrasto della criminalità organizzata in un potenziale mezzo di calunnia e di ricatto. Ma è sicuramente l’occasione per ricordare un uomo al quale dobbiamo la conoscenza di tante di queste storture, e l’impegno nelle Aule parlamentari e nei Palazzi di Giustizia affinché esse non avessero più a ripetersi.

Quando il professionismo dell’antimafia era ancora un santuario intoccabile, e opporvisi era considerata quasi un’eresia; quando la contestazione di taluni teoremi era ancora additata come una colpa di lesa maestà, perché le sentenze non erano ancora giunte a liberare dal sospetto come "anticamera della verità" quegli innocenti che avevano avuto la sventura di incapparvi; quando invocare le garanzie della persona come pilastro irrinunciabile dell’esercizio della giurisdizione poteva costare anche in alcuni settori del centrodestra la stroncatura di una carriera politica, Enzo Fragalà aveva già fatto del garantismo la sua bandiera politica ed esistenziale e dei "professionisti dell’antimafia" di sciasciana memoria un bersaglio privilegiato della sua vivace vis polemica, e aveva già inondato il sindacato ispettivo della Camera dei Deputati delle "prodezze" di Baldassarre Di Maggio schiudendo un vaso di pandora fino a quel momento troppo poco esplorato. A Fragalà, dunque, in un giorno come questo non può non andare il nostro pensiero.

Vi sono molte buone ragioni per ritenere che l’utilizzo che in Italia è stato fatto dei collaboratori di giustizia vada valutato a fondo e con serenità, al di fuori delle emergenze cui lo scontro politico e i fatti contingenti a volte ci sottopongono. E per chiedersi, forti anche delle tante richieste avanzate in tal senso e rimaste inevase nel corso delle diverse legislature, se una Commissione parlamentare d’inchiesta per verificare aspetti controversi dell’applicazione di una legge dello Stato non possa servire a maturare maggiori consapevolezze e contribuire a restituire credibilità a uno strumento di indagine in parte inficiato dall’uso improprio che ne è stato fatto.

La prima di queste ragioni è che proprio ora che lo Stato – il governo innanzi tutto, le forze dell’ordine, la magistratura – ha scritto pagine mirabili nella lotta alla criminalità organizzata, dimostrando che se si vuole è possibile un’antimafia dei fatti che vale più di mille parole, di mille fiction, perché no – mi sia consentito – di mille libri-denuncia; proprio ora che – come ci dirà il sottosegretario Mantovano – la gestione amministrativa dei pentiti da parte delle competenti articolazioni del Ministero dell’Interno è stata finalmente ricondotta a criteri ben precisi e a una sua razionalità; proprio ora è il momento di fare un passo in più. Ovvero, di mettere in campo ogni strumento istituzionale affinché il primo anello della catena, l’autorità giudiziaria, rinunci a comportamenti a volte spregiudicati e a interpretazioni a volte fantasiose della normativa vigente per riportare i collaboratori di giustizia ad essere quello che l’ordinamento ha immaginato che fossero: un utile strumento di contrasto alla mafia. Nulla di meno, ma neanche nulla di più e soprattutto nulla di diverso.

Senza andare troppo indietro nel tempo, insomma, non è edificante per la magistratura italiana che sia stato ammesso a testimoniare in un pubblico dibattimento un sedicente pentito che senza poter addurre il minimo riscontro si è fatto latore di accuse tanto surreali quanto infamanti nei confronti del presidente del Consiglio, e che per sua stessa ammissione, negli anni in cui maturava la sua "conversione" si era reso protagonista di un inquietante andirivieni tra l’ufficio dell’allora Procuratore nazionale antimafia e il carcere di Tolmezzo in cui era recluso e nel quale conversava tranquillamente col suo ex boss di riferimento. Parlo di Gaspare Spatuzza, naturalmente.

Non è confortante sapere che, sempre per limitarci alla cronaca recente, una sentenza come quella che ha visto assolto Calogero Mannino dopo diciassette anni non abbia indotto nessuna riflessione in quanti sono soliti liquidare ogni argomento critico come un espediente per salvare questo o quel politico.

Non è possibile, soprattutto, che il limite di sei mesi che la legge impone al collaborante per rendere le sue dichiarazioni venga disatteso con tanta leggerezza, consentendo agli aspiranti pentiti di limitarsi a dettare un "indice" nell’arco dei centottanta giorni, e negli anni successivi di riempire quell’indice di contenuti con esternazioni a rate, che, per forza di cose, in moltissime occasioni, si prestano ad essere ritenute "a orologeria".

L’opera di razionalizzazione messa in campo dal governo, dunque, non sarà sufficiente a restituire i collaboratori di giustizia alla loro funzione originaria, senza storture né deviazioni, se non si riuscirà a far sì che ad applicare la legge e a rispettarla non sia solo quella stragrande maggioranza di magistrati che ogni giorno compie il proprio dovere senza clamori e con spirito di sacrificio, ma anche quella minoranza rumorosa di militanti che usano la toga per fare politica e pretenderebbero pure l’acquiescenza da parte di chi ha il dovere di garantire la tenuta dello Stato di diritto.

Per far questo, credo che il primo passo sia conoscere gli errori del passato e imparare da essi. Esorcizzare attraverso la conoscenza gli spettri di quella cattiva antimafia che ha infestato gli ultimi decenni di storia italiana potrebbe essere un buon inizio verso una "secolarizzazione" del fenomeno del pentitismo, nel senso migliore che si possa attribuire a questo termine. Il passo successivo sarà interrogarsi sulla legge vigente e soprattutto osservare empiricamente e con realismo l’uso che ne è stato fatto. E chiedersi se in un Paese come il nostro, dove la difesa dello Stato di diritto viene impropriamente additata come pretesa di impunità, sia davvero così eretica la posizione di chi, anche nel nostro gruppo in Senato, ritiene che per considerare attendibili le dichiarazioni dei pentiti debbano esserci riscontri oggettivi al di là delle dichiarazioni di altri pentiti. Interroghiamoci laicamente, senza pregiudizi. Potremmo scoprire che fra le posizioni in campo vi sono più punti di contatto di quanto le cronache quotidiane non facciano apparire.