E’ un giornalista l’ultima vittima degli intrecci di potere in Pakistan
08 Giugno 2011
La morte di Syed Saleem Shahzad, oltre che rappresentare una grave perdita per il giornalismo internazionale, lascia dietro di sé una serie di questioni che con molta probabilità non troveranno mai alcuna risposta. Scomparso il 29 maggio, il suo corpo è stato ritrovato due giorni dopo, privo di vita e con evidenti segni di tortura, a circa 150 km da Islamabad. Pochi giorni prima dell’accaduto, Shahzad aveva pubblicato la prima parte di un reportage in cui denunciava le collusioni tra alcuni elementi della marina pakistana e il gruppo terroristico Tehrik-i-Taliban, ossia, i cosiddetti "talebani pakistani", guidati da Hakimullah Mehsud. L’episodio a cui il giornalista pakistano faceva riferimento per mettere in luce tali intrecci era l’assalto alla base della marina pakistana situata a Mehran (Karachi) condotto da un gruppo di non più di venti militanti e conclusosi con la morte di dieci soldati e la distruzione di due velivoli militari di fabbricazione americana, dal valore di diversi milioni di dollari.
Tale attacco, oltre a sollevare dubbi circa l’effettiva capacità delle forze armaste pakistane di difendere le proprie basi (si veda un episodio analogo avvenuto a Rawalpindi, nel 2009) e, più in generale, la popolazione e il proprio arsenale nucleare, secondo la tesi di Shahzad, avrebbe costituito una risposta del TTP al rifiuto da parte della marina pakistana di rilasciare alcuni suoi elementi arrestati nei mesi precedenti poiché in combutta con gli ambienti estremisti, per organizzare attacchi terroristici contro obiettivi nazionali e occidentali.
Quello della presenza del fondamentalismo religioso all’interno di alcuni settori delle forze di sicurezza pakistane è un tema molto ricorrente e che affonda le proprie radici negli anni ’70. L’attuale situazione, infatti, sarebbe figlia di politiche che hanno trovato la propria applicazione a partire dall’invasione sovietica dell’Afghanistan, durante il regime del Generale Zia ul-Haq, il quale ha lasciato un segno molto profondo nella storia del paese. La strategia elaborata in quegli anni consisteva nell’attingere a piene mani dagli ambienti dell’estremismo religioso per colmare il gap militare nei confronti dell’India e per estendere l’influenza pakistana nel cosiddetto "mondo islamico", considerato uno sbocco naturale delle aspirazioni nazionali. Le politiche che di questa scelta strategica erano la diretta conseguenza (finanziamento di reti terroristiche, soprattutto in funzione anti-indiana; alleanza con gruppi religiosi capaci di dialogare con gli ambienti dell’estremismo; proliferazione di istituti religiosi all’interno del sistema educativo del paese) hanno però finito col contaminare ogni settore della società pakistana, dalla classe politica alle forze armate, e lo Stato si ritrova oggi a pagare a caro prezzo tali scelte.
La colpa di Shahzad consisterebbe, dunque, nell’aver fatto luce su questo losco intreccio di interessi che sta mettendo in ginocchio il paese. Una denuncia pagata con la propria vita. Secondo Human Rights Watch e alcuni giornalisti che operano sul territorio pakistano, i servizi segreti sarebbero responsabili dell’uccisione del giornalista. Un’accusa certamente grave, ma sorprendente tanto quanto una pioggia d’autunno. L’ISI, infatti, non hai mai mostrato la minima esitazione allorché si è trattato di eliminare elementi ritenuti troppo scomodi, basti pensare che negli ultimi 10 anni, circa 1.000 persone, per la maggior parte oppositori politici e nazionalisti del Baluchistan, sarebbero “misteriosamente” scomparsi. La verità, si sa, costa molto cara, specie dalle parti di Islamabad. Episodi come l’uccisione di Shahzad potrebbero apparire sconsiderati, specie alla luce della delicata situazione venutasi a creare a seguito dell’operazione bin Laden e del conseguente aumento delle pressioni sul paese, da parte della comunità internazionale. Tuttavia, esse servono da monito per coloro i quali decidono di non praticare l’auto-censura, fenomeno molto diffuso nel mondo del giornalismo pakistano. Ci vorrà molto tempo prima che le cose possano cambiare in maniera significativa e questo tragico episodio lascia davvero poco spazio alla speranza che una reale svolta ci sia già stata.
Verso un intervento nel nord Waziristan? Negli ultimi giorni, si è molto parlato della possibilità che le forze armate pakistane si impegnino in un’operazione di “pulizia” del Nord Waziristan, covo del network degli Haqqani e di numerosi altri pezzi pregiati della black-list di Washington. Sebbene i vertici militari di Islamabad si siano affrettati a ribadire che saranno loro a scegliere tempi e modalità di un’eventuale missione nei territori di Miram-Shah, la cosa pare ormai certa e dovrebbe avvenire in un futuro non troppo lontano. Le operazioni terrestri dovrebbero essere precedute da una serie di raid aerei tesi a sfiancare l’avversario e accumulare materiale d’intelligence utile per le forze di terra, le quali saranno chiamate ad operare su un territorio difficile e pieno di insidie. Resta certo da vedere quali saranno gli obiettivi di tali operazioni e risulta difficile credere che Islamabad sia pronta a combattere quei gruppi (vedaIl si proprio il network degli Haqqani) che sino ad oggi sono stati considerati un asso nella manica e utilizzati per aumentare il proprio peso negoziale al tavolo delle trattative per la definizione degli scenari afgani del post-ritiro statunitense. In ogni caso, qualora la missione nel Nord Waziristan dovesse concretizzarsi e dare dei buoni risultati, si tratterebbe di un’enorme vittoria per gli Stati Uniti.
Un successo militare dei pakistani, infatti, avrebbe come naturale conseguenza una significativa riduzione delle capacità dei gruppi terroristici di colpire le forze USA ed alleate in quelle province afgane dove oggi si registrano le maggiori perdite e permetterebbe a Washington di abbandonare il suolo afgano potendo annunciare al mondo di aver ucciso l’ex leader di al-Qaeda e di aver creato le condizioni basilari affinché a Kabul si possa avviare un processo di ricostruzione e ricomposizione nazionale.
Tuttavia, molto dipenderà dall’effettiva volontà delle autorità pakistane di intervenire in un contesto tanto complesso e che rischia di avere tragiche ripercussioni, come dimostrato dal crescente attivismo dei gruppi terroristici all’interno dei maggiori centri urbani del paese. Uno sguardo su quello che sta avvenendo da alcuni mesi a Karachi basta a dare un’idea della situazione che potrebbe venirsi a creare qualora il governo e le forze armate pakistane decidessero di usare la mano pesante nei confronti di quegli ambienti dell’estremismo di matrice religiosa che, sino ad ora, erano stati in qualche modo corteggiati e introdotti all’interno del sistema politico-sociale del paese. A ben vedere, se l’operazione dovesse realmente realizzarsi, ciò sarebbe più il frutto delle crescenti pressioni che giungono dalla Casa Bianca, che della reale volontà di voltare pagina. In tal caso, è probabile che si decida di colpire obiettivi mirati e limitati, evitando di impegnarsi in operazioni che potrebbero rivelarsi troppo costose per il paese.
Nelle prossime settimane, si avranno maggiori indicazioni per tentare di capire verso quale direzione si stanno indirizzando gli eventi. Nel frattempo, non ci resta che guardare con favore alle manifestazioni organizzate in questi giorni per commemorare la morte di Shahzad, e sperare che la società civile pakistana possa trovare la forza per ribellarsi con decisione ad un sistema che ormai da troppo tempo ne ostacola il naturale sviluppo.