E’ vero: al Pdl non c’è alternativa. Ma al partito serve una nuova fase politica

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E’ vero: al Pdl non c’è alternativa. Ma al partito serve una nuova fase politica

03 Gennaio 2011

La consapevolezza che il Pdl è progressivamente diventato poco attraente, ha convinto Silvio Berlusconi a mettere le mani nel suo fragile ingranaggio. Alla ripresa dopo le festività, speriamo che gli annunci fatti nelle ultime settimane si traducano in concrete iniziative. Gli avvenimenti che hanno messo a dura prova la tenuta del centrodestra dalla scorsa primavera alla fine dell’anno, hanno mostrato, con un’evidenza che nessuno può negare, la fragilità di un soggetto politico che in meno di due anni non è stato capace di strutturarsi come un vero e proprio partito politico. Con l’aggravante che ad esso non c’è al momento alternativa. Dunque, è sul Pdl e nel Pdl che bisogna operare. Per cambiarlo innanzitutto e poi  rilanciarlo come soggetto elettorale in grado di calamitare consensi, in vista delle elezioni che prima o poi dovranno tenersi.

Fa bene il Cavaliere ad immaginare organigrammi e strumenti di penetrazione sul territorio, promuovendo magari una classe dirigente più giovane, ma speriamo anche maggiormente attrezzata. Credo, tuttavia, che non si possa e non si debba prescindere dalla riformulazione dei contenuti che devono essere a fondamento di un movimento che continua a proporsi come il motore del cambiamento e dell’innovazione politica e sociale italiana. Insomma, la questione dell’identità del Pdl non può più essere rinviata. E’ stato detto fino alla nausea nelle settimane e nei mesi precedenti la costituzione formale del partito, con scarso successo, mi pare, posto che il tutto finì con un trionfino artificioso i cui esiti  sono stati dopo poco sotto gli occhi di tutti.

Oggi non è più evitabile la riflessione sul Pdl, sulla compatibilità delle sue anime, sui progetti intorno ai quali ricreare entusiasmi che possano produrre un nuovo inizio, un impegno che non finisca con l’occasione elettorale. Insomma, bisogna sapere verso quali obiettivi ci si muove. L’evoluzione delle nuove scienze, delle tecnologie che condizionano la nostra esistenza, delle sovranità che, in modi perfino cruenti ed inaccettabili, richiedono attenzione, impongono alla politica di gettare alle ortiche quegli orpelli dei quali si ammanta (tiene banco in questi giorni l’alleanza con Casini e di questi con Bersani, e di questi ancora con Vendola e tutti insieme appassionatamente contro il Cavaliere: ma che c’entra questo sgangherato ballo in maschera con i problemi che ci stanno di fronte?) per assumersi le responsabilità che i grandi temi – non solo italiani, europei, occidentali, ma globali – richiamano alle intelligenze ed alle coscienze di tutti.

So che a molti basterebbe avere di fronte un partito coeso in grado di lanciare una sfida sulla riforma dello Stato, dell’economia, della scuola, della ricerca. E tutto ciò è nel novero delle cose da fare, indubbiamente. Ma come ci si vuole attrezzare di fronte alla bioetica, alle biotecnologie, alle  nuove povertà paradossalmente generate dallo sviluppo scientifico che mentre risolve alcune forme di disagio planetario ne crea delle altre come la disoccupazione, la desertificazione, l’urbanizzazione, il decremento demografico del primo mondo?

C’è la vita e c’è la morte nel mondo di pensare politicamente. I “nemici”, lo ammetterebbe Carl Schmitt se fosse tra di noi, non sono più quelli tradizionali, ma si palesano come problemi che chi vuole impossessarsi delle chiavi del mondo – sempre più spesso con sistemi eterodossi, inaccettabili, come il controllo delle fonti energetiche, l’incremento degli arsenali militari, il terrorismo, la strumentalizzazione delle religioni –  sa come utilizzare accerchiando l’umanità in un disegno egemonico che sfugge a chi evidentemente ritiene, in Italia (ma non solo), che la politica inizi e finisca nei decrepiti santuari del potere; un potere finto, marginale, irrilevante, come si può capire dalla forza di un hacker capace di mettere in ginocchio le diplomazie (e non soltanto) di tutto il mondo, producendo conflitti che fino a poco tempo fa avremmo definito fantascientifici.

In breve. Abbiamo bisogno di un partito globale con l’ambizione di praticare una politica globale e sfuggire, perciò, al politicismo fatto di piccoli sputi serali che arrivano via internet contro questo o contro quello. 

La politica italiana deve necessariamente inquadrarsi in un contesto più ampio; deve tener conto dei fattori sommariamente richiamati se vuole scaldare ancora i cuori facendo ritrovare alla gente motivazioni che la facciano sentire partecipe di un progetto. Certo ci sono energie su cui investire, ma non privandole della cornice globale: lo Stato, in senso presidenziale; la democrazia, decisionista e partecipativa; l’economia in chiave solidale; la ricostruzione della comunità nazionale nel segno dalla sussidiarietà; l’invenzione di una “big society” che responsabilizzi i ceti; il rilancio di una cultura modernizzatrice che inglobi tutte le istanze identitarie; la visione di un’apertura mediterranea in vista di mercati nuovi e di dialoghi da incrementare nel solco di una tradizione culturale plurimillenaria. Non è poco. Qualcuno dirà che è estremamente ambizioso ripensare il centrodestra in rapporto a tutto questo e a ben altro ancora.  Non credo. Il Pdl, o come lo si vorrà ribattezzare, ha la necessità di proporsi come strumento rivoluzionario senza limiti. Poi, raccoglierà ciò che sarà possibile.

Inutile dire che l’apporto di strumenti di intervento e di approfondimento culturale è indispensabile. Ma se il partito non viene messo in condizione di recepire lo spirito di un rinnovamento nazionale, liberale e conservatore, tutto resterà allo stato di pura aspirazione. I movimenti politici muoiono quando non hanno più linfa che li anima. La sinistra ha perduto la sua battaglia con la storia perché il classismo è finito e la modernità ha dato torto al suo egualitarismo ideologico. Di converso, la destra ha la possibilità di modificare strutturalmente un Paese come l’Italia perché il soggettivismo ed il comunitarismo, radicati in un humus culturale e religioso specifico, quello della cristianità e del personalismo greco-romano, sono sentiti istintivamente. Da qui la necessità di offrire uno strumento che recepisca questo “materiale”, che ne è l’essenza, e lo faccia vivere nelle decisioni politiche.