Ecco come dovremmo riscrivere il capitolo “costo del lavoro” nel 2012
02 Gennaio 2012
I sindacati sono di nuovo all’attacco. Ieri hanno lanciato un nuovo avvertimento al governo. C’è un «rischio reale» di tensioni sociali – hanno dichiarato all’unisono – la priorità è la difesa del lavoro. Allarme che ha spinto Mario Monti ad intervenire. Il premier ha ribadito la sua volontà di ricercare «la massima intesa» sui temi del lavoro e dell’occupazione, pur sottolineando «l’esigenza di operare con la sollecitudine imposta dalla situazione». Ma come dovrebbe essere riformato il mercato del lavoro nessuno ancora lo sa. Neppure l’ex opposizione.
In una recente intervista l’ex ministro del welfare, Cesare Damiano, ha sostenuto che uno dei motivi per cui le aziende ricorrerebbero a forme di precarietà per assumere manodopera «non è contrattuale ma economico». Perciò le imprese avrebbero più appeal dai contratti flessibili: perché «assumere a tempo indeterminato costa di più». Da questa riflessione il deputato del Pd deriva le sue conclusioni in merito alle misure necessarie (due le principali) per incrementare le assunzioni: 1) «si deve agire sulla riduzione del costo del lavoro per le imprese»; 2) «deve essere alzato il costo dei contratti precari e diminuire quello dei dipendenti fissi».
Per chiarire la sua autentica idea serve aggiungere che, in premessa alla riflessione, Damiano ha detto di non credere «alla favola della licenziabilità che produce lavoro», riferendosi in primo luogo al suo collega di Partito, Pietro Ichino (senatore Pd) – il quale sostiene piuttosto che l’impresa avendo possibilità di licenziare per motivi economici assumerebbe di più –; e poi per rimarcare una volta per tutte la «posizione di tutto il Pd, votata a grandissima maggioranza l’estate scorsa (del 2010, nda)», ossia che «consideriamo del tutto fuori luogo un nuovo attacco all’articolo 18».
Ciò che non sono riuscito a trovare, in quell’intervista, è qualche indicazione ulteriore circa la via e le concrete iniziative da prendere, a parere di Damiano, per ridurre il costo del lavoro alle imprese e/o per aumentare quello del lavoro precario. Chiedendo scusa all’intervistato per l’immodestia provo a ricercare qualche soluzione per concretizzare l’idea dell’ex ministro del lavoro. Trovo, infatti, pienamente condivisibile l’idea di Cesare Damiano sulla necessità, per incrementare le assunzioni, di: 1) ridurre il costo del lavoro alle imprese; e 2) di aumentare quello del lavoro precario. Il problema, si vedrà, sta sul “dove” e sul “come” farlo.
Sull’attuale mercato del lavoro convivono principalmente tre tipologie di contratti (o rapporti) di lavoro: il lavoro dipendente, il lavoro parasubordinato (le famigerate co.co.co. e le co.co.pro.) e il lavoro autonomo (gli artigiani, i commercianti, i professionisti, etc. ma anche “le partite Iva”). Ognuna delle tre tipologie ha proprie prerogative: il lavoro dipendente, per esempio, ha l’articolo 18 mentre il lavoro parasubordinato e autonomo non ce l’hanno. L’insieme di queste prerogative – che altro non sono che gli effetti delle diverse normative che il Legislatore ha prodotto negli anni – dà vita a un cosiddetto “regime generale di tutela” (Rgt) suddivisibile sotto tre profili: retributivo, contributivo e di protezione all’impiego (la stabilità). Sull’attuale mercato del lavoro italiano, il Rgt è alto nei rapporti di lavoro subordinato, è medio nei rapporti di lavoro parasubordinati, è basso nei rapporti di lavoro autonomo.
Dal punto di vista dei lavoratori, un alto livello di Rgt equivale a maggiore utilità: retribuzione minima garantita, buona contribuzione per la pensione e sicurezza del posto di lavoro, nell’insieme, evidentemente danno maggiore tranquillità di vita. Pertanto, in linea di massima, nel caso di scelta tra possibili alternative occupazionali con differenti livelli di Rgt, il lavoratore preferirà sempre quello con il Rgt più elevato. Dal punto di vista dei datori di lavoro la situazione si presenta diametralmente opposta. Un alto livello di Rgt equivale a un costo del lavoro più elevato. Pertanto, se è possibile scegliere tra due forme di arruolamento di manodopera con differenti livelli di Rgt, il datore di lavoro preferirà sempre quello con il Rgt meno elevato.
Questo Rgt, insomma, condiziona le preferenze di imprese e lavoratori e, di conseguenza, influisce sulle loro scelte (le tipologie di assunzioni) decise sul mercato del lavoro. Mettiamoci dal punto di vista delle imprese: il Rgt incide sotto forma di costi “diretti” e di costi “indiretti”. I primi sono i costi la cui misura è nota all’impresa sin dall’assunzione del lavoratore: il costo retributivo, per esempio, oppure quello contributivo. I costi “indiretti”, invece, sono quelli la cui misura non è nota ma è soltanto “ipotizzabile” dall’impresa all’atto dell’assunzione; primo tra tutti c’è quello relativo all’articolo 18, osservabile da due angolature diverse: 1) la non licenziabilità dei lavoratori laddove per esempio un’iniziativa produttiva non dovesse andare a buon fine (si consideri, in particolare, il repechage); 2) l’incognita di un eventuale contenzioso giudiziale che può catapultare l’impresa in una situazione di estrema incertezza di lunga durata, con ripercussioni negative sulle decisioni di produzione (a partire da quelle di assunzione).
Volendo dar seguito all’intuizione di Damiano sulla riduzione del costo del lavoro alle imprese, va allora decisa la strada da percorrere: ridurre i costi diretti o ridurre i costi indiretti (oppure ridurli entrambi). Ma qui c’è un piccolo problema: la scelta non è possibile. Infatti, l’ex ministro del lavoro (ed il Pd) chiude a prescindere la possibilità di percorrere la via della riduzione dei costi indiretti, laddove afferma che è “fuori luogo un nuovo attacco all’articolo 18”. Peccato! Questa scelta sua (e di Partito), squisitamente ideologica, sbarra la strada a una vera riforma del diritto del lavoro che potrebbe portare soltanto benefici, sia alle imprese che ai lavoratori.
Lealtà vorrebbe quanto meno che si affrontasse il dibattito; poi, eventualmente, dare giustificazione del rifiuto a certe soluzioni. Se fosse possibile il confronto, Damiano e il PD dovrebbero provare a valutare liberamente anche la soluzione di allentare i costi indiretti alle imprese, in primis appunto l’articolo 18. I costi diretti (che esprimono le tutele retributive e quelle contributive) sono costi certi, cioè noti alle imprese sin dall’assunzione della manodopera; i costi indiretti (l’articolo 18, il contenzioso e via dicendo) sono costi aleatori. Il che vuol dire che, nel momento in cui decide se e quanto personale assumere, l’impresa sa con certezza (solo) il costo retributivo e contributivo; mentre può fare (solo) una valutazione circa l’incidenza (il peso) dei costi indiretti, perché la loro manifestazione come il loro ammontare sono solo eventuali restando incerti fino alla loro reale manifestazione. Questa diversità di cognizione che ha l’impresa sui costi finisce per condizionare il processo produttivo – processo del quale fa parte la componente decisionale della manodopera – e, quindi, la domanda di lavoro.
Perché il lavoro precario ha più appeal sulle imprese? Perché costa meno retributivamente e contributivamente o, piuttosto, perché ha un costo indiretto nullo (non c’è l’articolo 18)? Nell’ottica dell’imprenditore, l’aleatorietà è qualcosa da cui rifuggire: tra una assunzione di personale a costi certi e una a costi incerti, preferirà sempre la prima anche se deve rinunciare a una parte di produzione aggiuntiva qualora ciò non dovesse garantirgli il risultato d’impresa atteso. In secondo luogo, poi, a differenza della garanzia d’impiego (articolo18), le tutele retributive e previdenziali hanno un costo che l’imprenditore riesce a neutralizzare con la decisione di produzione. Infatti, trattandosi di costi noti e certi, l’impresa avrà modo (e tempo) per traslarli sul prezzo della produzione (e vendita); simile operazione non è invece possibile – o quantomeno risulta molto più artificiosa – con riferimento alla garanzia d’impiego.