Ecco come è stato possibile che ci siamo ridotti “in questo Stato”

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Ecco come è stato possibile che ci siamo ridotti “in questo Stato”

05 Ottobre 2008

Nel trentesimo anniversario dell’esecuzione di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse, sul leader della Dc e sui giorni del sequestro si è detto e scritto di tutto. Libri, articoli, dibattiti, rievocazioni, conferenze, mostre: il mondo della cultura e dei mass media ha messo in campo tutti i mezzi possibili per rendere omaggio alla memoria di quello che Leonardo Sciascia definì "l’affaire Moro". Uno psicodramma collettivo, una delle pagine più buie della Repubblica italiana.

Particolare rilievo – nel profluvio editoriale su Moro e le Br – assume allora la scelta dell’editore Garzanti di ripubblicare "In questo stato" di Alberto Arbasino, celebre istant book del cosmopolita autore lombardo che vide la luce nel settembre 1978. "In questo Stato" (nella fresca riedizione l’autore ha insignito della maiuscola la parola "stato") era scomparso da tempo dagli scaffali delle librerie: ripubblicarlo significa mettere gli italiani di oggi di fronte a quello che sono stati allora. E il risultato è drammatico: quello che si scopre – scorrendo duecento pagine di prosa tanto complessa quanto comunicativa – è infatti che l’Italia è cambiata assai poco. Stessi vizi, stesse meschinità, stessi difetti: Arbasino non risparmia niente e nessuno, come i veri intellettuali dovrebbero fare al di là delle ideologie di partito.

Quando la notizia del sequestro di Moro e dell’uccisione degli uomini della scorta rimbalza sui giornali di tutto il mondo, Alberto Arbasino si trova a Londra: da anni lo scrittore è impegnato a parlare di un "altrove" che va dall’Inghilterra alla California, passando dalla Germania alla Francia. Da questo altrove, ad Arbasino sembra che in Italia tutto stia cambiando: ma se all’aeroporto di Londra la patria appare sull’orlo del baratro, quando l’aereo atterra a Fiumicino tutto appare invece irrimediabilmente uguale a prima.

Neppure il sequestro del presidente del consiglio sembra scalfire l’intimità degli italiani: comincia così il viaggio dello scrittore nel "qui", nell’Italia del 1978 in balia delle Brigate Rosse. Ma se tutti gli intellettuali – a partire da Sciascia, impegnato nell’analisi delle lettere di Moro e dei comunicati delle Br – guardano al sequestro e ai suoi sviluppi, Arbasino sceglie di guardare alla società italiana: a quello che pensa, dice e fa. Il momento è propizio: è "durante i grandi spasimi come questi", argomenta lo scrittore, che "l’Italia smaschera più sfrenatamente i propri caratteri e connotati più autentici, e i più profondi fantasmi". È allora il carattere italiano più veritiero a costituirsi come nocciolo duro  dell’irriverente pamphlet arbasiniano, riedito con una postfazione e con le consuete correzioni autoriali.

Tra le disposizioni italiane al centro del mirino, tre spiccano sulle altre. Primo, il "giornalese": "Un gergo pubblicistico ridotto a pochi luoghi comuni spompati e ossessivi" che "perde presa con la realtà e contatto con l’informazione". Molte parole, molti luoghi comuni, molte frasi fatte che vanno a braccetto con una politica fatta di molti comunicati e pochi fatti. Ecco allora che i giornali italiani del 1978 appaiono allo scrittore "fatti soltanto di ‘bla’, senza mai un ‘non diciamo cazzate’ da parte di chi riferisce o intervista o commenta". Il caso Moro si presterebbe ad una cronaca politica e criminale "fra le più tragiche e complesse": ma il giornalese la riduce "a un miserabile campionario di scarse metafore". Questa la realtà editoriale: inutile allora, conclude Arbasino, lamentarsi "perché aumentano così poco i lettori e gli acquirenti di queste paginone".

Secondo, l’ideologia e gli intellettuali italiani. Arbasino prende di mira le periodiche (interminabili) discussioni sulla "questione degli intellettuali", sul loro ruolo nella società, sui meriti e i demeriti della classe intellettuale. Quando mai, chiede lo scrittore, "un ‘discorso’ non sulle parole ma sulle cose?": quando mai, insomma, gli intellettuali italiani inizieranno a parlare e scrivere di fatti concreti, al centro degli interessi nazionali? La società così non funziona: a quando allora, continua Arbasino, una proposta concreta per cambiare le cose?

Terzo, i giovani. Ai trentenni, nota Arbasino, non importa niente di quanto sta accadendo: "E non per cattiveria, magari cercano sinceramente di farselo importare, si sforzano un po’, ma non ci riescono". L’analisi della classe giovanile è condotta principalmente sulla base delle lettere inviate a "Lotta continua": un campionario "dei tormenti di una generazione disperata", in preda a riflessioni e tavole rotonde sulle ingiustizie del mondo e della società. Contro il sistema, due sono gli atteggiamenti giovanili: la lotta armata o la richiesta di assistenza e facilitazioni; manca, in entrambi i casi, un "piano concreto": un progetto realistico da sottoporre alla società, smettendo una volta per tutte di piangersi addosso.

Basta una rapida scorsa alle pagine per rendersi conto dell’attualità dell’opera di Arbasino. Sono passati trent’anni, Garzanti ci ripropone "In questo Stato" e tutte le domande che ne conseguono. I giornali e la politica sono cambiati? Oppure ci sono ancora troppe parole e poca concretezza? Il contributo degli intellettuali è utile alla società odierna? O è lontano anni luce dalle questioni più urgenti? I giovani di oggi, preda dei social network e del precariato, cercano di cambiare le cose? O continuano a piangersi addosso? La risposta al lettore. Senza dimenticare che "In questo stato" (nel 1978) ha già visto avverarsi svariate profezie: dai problemi di Alitalia alla concorrenza con la Spagna, passando per la delicata questione libica. Profeti e pensatori di questioni concrete: questo dovrebbero essere gli intellettuali.

Alberto Arbasino, In questo Stato, Garzanti 2008, pagine 214, € 11.00