Ecco i rischi che corre Israele nei possibili esiti della crisi siriana

LOCCIDENTALE_800x1600
LOCCIDENTALE_800x1600
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

Ecco i rischi che corre Israele nei possibili esiti della crisi siriana

21 Giugno 2012

La grave crisi apertasi in Siria nell’ultimo anno sta ponendo ai Paesi della regione una serie di interrogativi sulla posizione da assumere nei confronti del regime di Damasco e delle forze d’opposizione. Uno di questi è Israele, la cui linea, fin dall’inizio delle proteste popolari, è stata improntata alla massima cautela. Il governo di Gerusalemme, che già in occasione delle rivolte in Egitto e Tunisia aveva assunto una posizione estremamente prudente temendo un possibile arrivo al potere di forze islamiche radicali, nel caso siriano si è mostrato ancora più cauto. E questo per diverse ragioni.

La prima risiede nel particolare rapporto sviluppatosi tra i due Paesi negli ultimi vent’anni. Nei mesi seguenti alla “Guerra del Golfo” del 1991, l’allora Presidente statunitense George H. Bush decise di organizzare la conferenza di Madrid con la quale la Casa Bianca intendeva avviare una nuova fase per il Medio Oriente. Il punto fondamentale di questo progetto era appunto la conclusione di un accordo di pace tra Israele e Siria, un’intesa che, nonostante i forti contrasti esistenti tra i due Paesi, sembrò potesse essere raggiunta proprio per l’atteggiamento pragmatico mostrato da Gerusalemme nei confronti del regime siriano. Per una parte del mondo politico israeliano, il raggiungimento di un accordo di pace con Damasco è stato sempre considerato più vantaggioso di quello con i palestinesi, ritenendo la Siria una controparte più sicura proprio per la sua leadership stabile ed il forte apparato statale di cui disponeva. E alla metà degli anni novanta, la possibilità che potesse raggiungersi un’intesa sembrò concretizzarsi quando i due Paesi raggiunsero un accordo preliminare, basato sul modello di quello firmato nel 1979 tra Egitto ed Israele, nella quale Gerusalemme, in cambio di un trattato di pace, si impegnava a ritirarsi dal Golan e a restituirlo alla Siria. Nonostante gli auspici, le trattative però non si concretizzarono interrompendosi nella primavera del 2000 dopo che Hafez Assad respinse le proposte presentate dall’allora Premier israeliano Ehud Barack. Da allora, il negoziato non ha fatto più registrare progressi capaci di sbloccare lo stallo diplomatico visto anche il diverso atteggiamento verso Damasco tenuto dai diversi Premier israeliani succedutisi in carica.

La seconda sta invece nel fatto che la frontiera siriana è per Israele una delle più “calme” sotto l’aspetto della sicurezza. Al contrario di quanto accaduto con il Libano, la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, nella zona del Golan non si sono più registrati significativi incidenti dal 1967, fatta eccezione per quello avvenuto nel Maggio dello scorso anno, quando un gruppo di manifestanti inneggianti alla causa palestinese ha tentato di penetrare nel villaggio di Majdal Shams situato nella zona occupata scontrandosi con i militari israeliani.

Accaduto due mesi dopo l’esplosione delle proteste popolari in Siria, l’incidente, secondo alcuni analisti, sarebbe stato organizzato proprio dallo stesso regime siriano per distogliere l’attenzione dalla difficile situazione interna del Paese e convincere la popolazione che il nemico da combattere non fosse il governo di Bashar Assad ma Israele. Infine, l’ultima considerazione che ha indotto il governo israeliano a mostrarsi assai tiepido sugli eventi siriani deriva dallo scetticismo sui programmi e l’organizzazione politica delle forze d’opposizione. Così, se da un lato Gerusalemme valuta positivamente la sollevazione in quanto capace di indebolire Bashar al-Assad ed incrinare il legame esistente con Teheran, dall’altro, però, l’eventualità che la protesta possa portare alla formazione di un governo controllato dai “Fratelli Musulmani” è vista con estrema inquietudine.

Un ulteriore elemento di preoccupazione per Israele è rappresentato poi dall’arsenale missilistico e dai depositi di armi chimiche posseduto dalla Siria, che, con il collasso del regime di Damasco potrebbero finire o sotto il controllo di un governo di tendenze più estremiste oppure nelle mani di gruppi terroristici. Ecco perché, come sottolineato da diversi analisti, per Gerusalemme lo scenario più favorevole sarebbe quello in cui di Bashar al-Assad restasse al potere ma al tempo stesso fosse fortemente indebolito sul piano interno ed internazionale. Come dichiarato lo scorso anno dal professor Moshe Ma’oz – dell’Università ebraica di Gerusalemme – in un’intervista alla radio statunitense “National Public Radio”, se in Siria si prospettasse l’arrivo al potere di un governo d’ispirazione liberale, Israele non avrebbe difficoltà ad esprimere il suo appoggio all’insurrezione. Ma, purtroppo, questa prospettiva appare quanto mai improbabile vista la debolezza e le profonde divisioni esistenti tra le forze d’opposizione. In questo quadro, quindi, il governo israeliano preferisce trovarsi davanti al regime di Bashar al-Assad il quale, pur non avendo certamente un atteggiamento amichevole verso lo Stato ebraico, ha dimostrato almeno di essere pragmatico e lontano da ogni fanatismo religioso.

Si deve però sottolineare come le valutazioni degli esperti israeliani sulla Siria divergono profondamente. Da un parte i più pessimisti, tra i quali vanno inclusi diversi alti ufficiali dell’intelligence militare, non escludono che, nel caso in cui la situazione dovesse precipitare, il regime siriano possa arrivare a provocare un incidente nel Golan aprendo così una fase di scontro con Israele per allentare la tensione interna, ammonendo poi su quali scenari si aprirebbero nel caso a Damasco si formasse un governo di tendenze islamiche. L’eventuale arrivo al potere in Siria dei “Fratelli Musulmani”, in un momento in cui la loro controparte egiziana dispone già di un notevole consenso elettorale, potrebbe spingere Egitto e Siria a formare un’alleanza anti-israeliana ponendo così Gerusalemme nella condizione di dover fronteggiare due Paesi potenzialmente ostili e costringere il governo ad aumentare sensibilmente le spese militari. E questo senza contare come la presenza di un governo radicale a Damasco, oppure un’eventuale fase di vuoto di potere in Siria, non solo rafforzerebbe la linea degli “Hezbollah” e di “Hamas”, ma lascerebbe ampi spazi di manovra per l’Iran in Libano.

Dall’altra, non mancano coloro i quali invece affermano come Israele possa trarre un vantaggio politico dagli eventi siriani. L’indebolimento di Bashar al-Assad diminuirebbe infatti sensibilmente l’influenza iraniana nella regione rafforzando nello stesso tempo l’azione delle forze anti-siriane in Libano, mentre non si può escludere che il crollo dell’attuale regime siriano possa portare alla formazione di un governo democratico disposto ad allentare i legami con “Hamas” ed “Hezbollah”. Inoltre, Israele potrebbe sfruttare gli eventi siriani per spingere la Russia a cancellare l’accordo sottoscritto nel 2007 con cui si impegnava a fornire a Damasco diversi missili anti-nave “Yakhont” della portata di trecento chilometri.

Resta tuttavia il fatto che negli ultimi giorni la linea israeliana verso la Siria si è improvvisamente irrigidita. Sia il Premier Netanyahu che il vice Primo Ministro Shaul Mofaz hanno aperto ad un intervento militare internazionale contro Bashar Assad, accusando inoltre l’Iran e gli “Hezbollah” di complicità nella repressione attuata dal regime siriano. Un cambiamento di posizione radicale che, per molti osservatori, il governo israeliano avrebbe adottato anche per testare quanto siano reali le intenzioni della comunità internazionale di risolvere la crisi in Medio Oriente in un momento in cui, da parte di Gerusalemme, vi è un diffuso scetticismo sull’efficacia delle misure adottate per contrastare l’avanzamento del programma nucleare iraniano.