
Ecco perché ad Hong Kong le proteste continuano

14 Ottobre 2019
di Oscar Ngai
La situazione ad Hong Kong non sembra assolutamente migliorata. Benché il governo della città stia provando diversi modi per instaurare un dialogo con i cittadini, la rabbia non si è mai placata e l’instabilità sociale continua ad essere un problema di sicurezza pubblica. I tentativi di mediazione da parte delle istituzioni non sono mancati: la legge sull’estradizione, motivo scatenante del caos, è stata ufficialmente ritirata. Non solo. Ancora più interessante è il fatto che quando la governatrice di Hong Kong, Carrie Lam, ha parlato delle contraddizioni sociali in un incontro con la cittadinanza il 26 Settembre scorso, ha pubblicamente ammesso che la sua équipe non è stata capace di ascoltare la voce del popolo e di leggere i veri bisogni della città e – di conseguenza – dare delle risposte concrete. Una ammissione della quale le vanno dati il merito e il coraggio.
E allora qual è il vero problema di questa rabbia? Stiamo parlando non di una povera cittadina qualsiasi, ma di Hong Kong, una città internazionale, una delle più ricche ed una delle più stabili economicamente al mondo, non avendo nessun tipo di imposta assimilabile all’IVA e l’attuale aliquota fiscale sul reddito per le società di capitali e per le società di persone è rispettivamente pari al 16.5% e 15% e 8.25% e 7.5% per i primi 2 milioni dollari hongkonghesi (equivalgono approssimativamente a 200 mila euro). Una città che garantisce 12 anni di obbligo scolastico, che ha più di 10 atenei di alta qualità. Eppure, il problema non è l’economia, non sono le tasse e nemmeno l’istruzione.
E allora come mai le proteste continuano? Nonostante sia stato imposto il divieto dell’uso di maschera durante le manifestazioni, questo non ha effettivamente impaurito molti giovani. Anzi le proteste sono diventate sempre più violente. Continuano a cantare l’inno Glory to Hong Kong – scritto dai giovani – nei centri commerciali, ad indossare la maschera e a sfigurare i luoghi pubblici.
Quello dei giovani assomiglia tanto al grido di un bambino contro il genitore per una punizione ingiusta. La legge sull’estradizione è stata soltanto la classica goccia che hanno fatto traboccare il vaso. Il vero problema, a mio avviso, guardando attentamente dall’esterno – ora abito in Italia – le dinamiche della mia città e dei miei coetanei, è molto più profondo e ha a che fare con la sfera sociale ed esistenziale dei giovani: la mancanza di senso, della e per la vita.
La mancanza di senso spinge i giovani a ricercarlo esprimendo la propria rabbia contro il sistema politico e l’attuale governo e, più in generale, contro un sistema che li ha trattati semplicemente come macchine da lavoro. E in tutto questo le istituzioni, con ogni probabilità, non sono senza colpe: quante volte la città ha chiesto ai diversi governi di affrontare il problema del suicidio giovanile? Problema preso davvero sottogamba da tutti ma che ora sta assumendo contorni importanti.
Se è vero e giusto che le istituzioni non possono “imporre” per legge ai giovani la ricerca del senso profondo della vita, certamente sono corresponsabili di fronte a tutto ciò che non favorisce questo processo. Qualcuno ora potrebbe dire che forse questa è una conclusione troppo astratta. Ed avrebbe ragione, sicuramente. Ma affermare la verità è sempre essenziale. È il vero punto da cui partire per affrontare i reali problemi. Come dire: un albero di pino non sarà alto solo se lo tagli. Tagliare la verità significa dare la scusa a qualcuno per poter dire: non esiste.