“Ecco perché è meglio non parlare di liberalismo di destra e di sinistra”

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“Ecco perché è meglio non parlare di liberalismo di destra e di sinistra”

05 Luglio 2011

Caro Direttore Loquenzi,

Franco Cazzaniga scrive in una lettera al Suo giornale: “Al di là degli aspetti polemici del dialogo con Cofrancesco, mi piacerebbe che Ocone spiegasse ai lettori dell’Occidentale qual è la differenza fra liberalismo di destra e di sinistra”. Confidando di nuovo in una Sua cortese ospitalità, non mi sottraggo perciò alla richiesta di delucidazione, sia pur sommaria, sul concetto del liberalismo, almeno secondo come io lo concepisco.

Il discorso, come ho esplicato in varie occasioni, può svolgersi a vari livelli. Per un semplice motivo euristico, io ritengo che convenga, in prima istanza, tener ben distinto l’ambito della cultura politica da quello della politica in senso stretto. Non raccolgo perciò l’osservazione di Cazzaniga sul Partito Repubblicano, rispetto al quale non ho forse nemmeno la giusta competenza storica per poter giudicare con criterio. Limiterei il discorso alla cultura. E, in questo senso, per farle capire la mia posizione generale ma forse anche tante altre mie specifiche, le dico subito che, a mio modo di vedere, la distinzione fondamentale che attraversa l’universo politico-culturale del liberalismo non è, come si ritiene per lo più, quella fra liberali di destra e di sinistra, ma più radicalmente l’altra fra i fautori di un liberalismo che in senso lato possiamo definire giusnaturalistico e i rappresentanti, dall’altro lato, del liberalismo storicistico o anche, come l’ho spesso definito, “senza teoria” (intendendo questo temine nel senso astratto e sovrastorico, dottrinale, che ha nel linguaggio filosofico soprattutto contemporaneo).

Non è un caso, perciò, che, nonostante sia stato accusato di avere un occhio di riguardo per i “liberali di sinistra”, il mio breve profilo del liberalismo italiano contenuto nel volume che ho recentemente scritto con Dario Antiseri (Liberali d’Italia, Rubbettino), si concluda, in senso storico ma anche ideale, con il nome di Nicola Matteucci, che di sinistra certo non era e che a mio avviso rappresenta, sulla scia crociana, un esempio chiaro del liberalismo fondato sulla storia così come io lo concepisco. La stessa inclusione nella storia di Gobetti, che tanto ha destato “scandalo” in autori come Cofrancesco o Bedeschi, va giudicata proprio dall’idea che il pensatore torinese (che si era formato sui testi di Gentile prima e Croce poi) aveva della libertà come di un qualcosa che si dà, cioè che esiste e si afferma, solo nella lotta, nel conflitto, nella concorrenza e (elemento di particolare modernità) nella “circolazione” delle élites o classi dirigenti. Il liberalismo non è, ma si fa. Esso vive come perenne “rivoluzione” (un po’come  il capitalismo), trasformandosi e, come diceva Matteucci, ri-definendosi continuamente. Esso è perciò una dottrina atipica perché non ideologica, “metapolitica” per usare un’espressione di Croce.

In questa prospettiva dovrebbero poi spiegarsi, o almeno sembrare meno “eccentriche”, altre due mie scelte di pensiero, opportunamente riportate da Cazzaniga nella sua lettera. In primo luogo, la mia idiosincrasia per Hayek: in lui il concetto di Ordine spontaneo diventa, a mio avviso, una metafisica, una dottrina statica, assoluta, non discutibile o contraddicibile, finendo per sconfessare persino l’idea di libertà personale. Senza contare che il concetto stesso di Individuo è concepito dal cosiddetto “individualismo metodologico” in un senso sostanzialistico e cartesiano che dopo Kant non ha in filosofia più ragion d’essere. Il liberalismo fondato sui “diritti naturali” o giusnaturalistico, che la scuola austriaca ha rimesso in circolo nel Novecento, e che noi (che avevamo una tradizione diversa e più compiuta) abbiamo pedissequamente ripreso con il “neoliberalismo” di Antiseri & co. negli anni Novanta, è una sorta di protoliberalismo, o “liberalismo delle origini”: il liberalismo stesso lo ha superato almeno a partire dalla vera e propria “svolta” o “rottura epistemologica” operata in tal senso a metà Ottocento dal marchese de Tocqueville.

Venendo poi al mio interesse per Marx, pure considerato da Cazzaniga, potrei cavarmela dicendo che sono in buona compagnia: molti grandi liberali del Novecento si sono occupati di Marx, con profondo rispetto, dedicandovi anche classiche monografie: Croce, Popper, Berlin, Aron, solo per fare i primi nomi che mi vengono in mente. Oltre questa esteriore osservazione, vorrei però rispondere veramente sul perché ritengo importante studiare il barbuto e non certo “innocente” pensatore di Treviri. Il fatto è che egli non solo ci ha descritto in maniera insuperata il capitalismo del suo tempo, ma ha anche previsto quello del nostro, la cosiddetta “globalizzazione”. Con la sua profondità di pensiero bisogna che i liberali, se vogliono che anche il loro liberalismo sia serio e intelligente, facciano i conti fino in fondo. Il nemico, se è un “genio del pensiero”, va affrontato e combattuto, non ignorato o esorcizzato.

Sono infine d’accordo con Cazzaniga: il momento della libertà è assiologicamente superiore a quello della giustizia. Con Croce ho perciò molta più simpatia per il “socialismo liberale” di Rosselli, aspramente antimarxista, che non per il “liberalismo socialista” di Calogero. E, come Croce stesso ci ha insegnato, è anche una questione terminologica: il liberalismo può essere un aggettivo del socialismo, ma non vale il reciproco.

Cordialmente