Ecco perché gli Stati Uniti devono aiutare la Siria

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Ecco perché gli Stati Uniti devono aiutare la Siria

24 Luglio 2012

Dopo mesi di spargimenti di sangue, alcuni a Washington continuano a suggerire che la battaglia sulla Siria riguardi poco gli Stati Uniti. Hanno torto. A parte la questione dei principi, abbiamo interesse ad assicurarci la stabilità di un paese perno del Medio Oriente – e non solo perché il regime di Bashar al-Assad ha programmi d’armamento nucleare e chimico.

La questione è la seguente: come gli Stati Uniti possono fare la differenza, a dispetto della paralisi della comunità internazionale e della riluttanza dell’amministrazione Obama a sostenere l’opposizione siriana?

Prima di tutto, Washington deve smetterla di dare in appalto la politica siriana ai turchi, ai sauditi e ai qatarioti. Essi sono chiaramente parte integrante di uno sforzo anti-Assad, ma gli Stati Uniti non possono tollerare che la Siria diventi una regime affiliato per un’altra potenza regionale. Se abbiamo un interesse, beh è quello d’aiutare la Siria a muovere verso un futuro di stabilità, e non di finir ostaggio di un’altra nazione.

Per decenni Damasco è stato il pilastro della strategia mediorientale dell’Iran. La Siria è infatti tre cose per Teheran: la condotta attraverso la quale l’Iran passa le armi a Hezbollah; un terreno d’addestramento per i corpi militari della Guardia rivoluzionaria iraniana; e infine una stazione secondaria per terroristi intenti a destabilizzare l’Iraq.

Assad e suo padre, a sua volta capo di Stato siriano, a loro volta hanno avuto le loro priorità, tra cui si annoverano la dominazione del Libano (occupato dalla Siria per quasi tre decadi), la gestione di una serie di governi fantoccio a Beirut e il sostegno di gruppi terroristi palestinesi consacrati alla distruzione d’Israele.

Se è vero che Bashar al-Assad finirà per lasciare il potere, è altrettanto vero che non esiste alcun erede alla sua leadership. La Siria non replicherà i modelli tunisino, yemenita, libico o egiziano: a oggi, non esiste alcun rifugio dal quale un governo di transizione possa iniziare a lavorare; vi sono state alcune drammatiche defezioni e ancor meno elementi tra i disertori che possano rivendicare il mantello presidenziale. I partiti organizzati sono pochi, ed esistono divisioni tra coloro che lavorano da fuori per liberare la Siria e coloro che agiscono da dentro con lo stesso scopo.

E’ allettante l’idea di abbracciare il Consiglio Nazionale Siriano, CNS (Syrian National Council, SNC, ndt), il gruppo ombrello di resistenza politica ad Assad con base in Turchia. Ma il CNS ha un manifesto democratico e una visione nominalmente inclusiva, e si sta concentrando su piani di transizione per il futuro politico, economico e militare della Siria. Ma molti ritengono che il CNS sia diventato una creatura fortemente influenzata da Ankara, in tutto e per tutto Fratellanza musulmana salvo per il nome.

Ci sono almeno tre altri grandi gruppi sunniti in Siria. E poi ci sono due larghi gruppi curdi che rappresentano la forte minoranza curda che conta 2.5 milioni di persone. Infine, ci sono gli alauiti, che rappresentano all’incirca il 12% della popolazione siriane, dalle cui fila provengono i fedeli del regime.

I gruppi ribelli non sono soli; molti hanno una relazione speciale con padroni al di fuori: il Consiglio nazionale siriano con la Turchia; la Commissione generale della rivoluzione siriana con il Qatar e Arabia Saudita; e il Supremo consiglio della rivoluzione siriana con altri falchi islamisti.

Ognuno di questi riceve armi e sostegno da partiti esterni, molto contenti di scegliere parti. E ognuno di questi cade in qualche modo in uno spettro che va da democratici a islamisti fondamentalisti salafiti. Allo stesso tempo, i gruppi legati ad al-Qaeda che hanno preso parte ai combattimenti non hanno interesse a vedere emergere dalle ceneri di Assad una Siria secolarizzata e democratica. Ciò resta vero anche nel caso dell’Iran e di Hezbollah, che hanno condiviso le sorti di Assad dall’inizio degli scontri interni.

Visti i progressi compiuti dall’opposizione – quattro membri della ristretta cerchia di Assad sono morti la scorsa settimana mentre scontri continuano a coinvolgere Damasco – e la sclerotica attività decisionale di Washington, è probabilmente troppo tardi per gli Stati Uniti per iniziare ad armare direttamente l’opposizione.

Ma non è troppo tardi per entrare più aggressivamente con alleati volenterosi come i turchi, a patto che si cooperi senza cedere controllo totale. Ciò non deve voler dire truppe a terra – ma molto vi sarebbe da guadagnare da un controllo aereo congiunto di una zona di sicurezza per la popolazione siriana e corridoi umanitari per i rifugiati. Questi primi passi potrebbero fare molto per ridare credibilità agli Stati Uniti nel Medioriente.  

Sul fronte politico, prima cosa da fare, è giunto il tempo di smettere d’insistere nel dire che l’opposizione non è “potabile”. Lo è chiaramente. In secondo luogo, l’amministrazione Obama dovrebbe incoraggiare tutti i partiti a lavorare nella direzione di una comune e inclusiva visione simile a quella articolata dal Consiglio nazionale siriano, senza però puntare tutto sul CNS. A tal fine, Washington dovrebbe lavorare velocemente in cooperazione con i nostri alleati europei per creare fiducia e credibilità in un leader nazionale votato a un governo democratico.

Dovremmo mettere la nostra muscolatura diplomatica in comune con partiti credibili e con seri piani politici ed economici – una strategia che ha ci ha permesso di mettere fuori uso la Fratellanza musulmana in Libia. In terzo luogo, gli Stati Uniti dovrebbero sostenere la formazione di governi di transizione a livello regionale o, ancora meglio, un governo di transizione nazionale nelle aree dominate e controllate dai ribelli.

Infine, dovremmo offrire delle prospettive di partnership con gli Stati Uniti. Il popolo siriano ha dovuto per decenni accettare che i propri vicini, i russi e altri sostenessero il clan degli Assad. Washington ha dimostrato d’essere migliore, se non perfetto; nel lavorare assieme a un governo emergente, gli Stati Uniti hanno l’opportunità di servire tanto i propri principi che i propri interessi nella speranza di un futuro migliore per i siriani.

*Danielle Pletka è vice presidente del programma Foreign and Defense Policy Studies all’American Entreprise Institute, un think tank d’estrazione conservatrice con base a Washington DC.

Tratto dal Washington Post