
Ecco perché i partiti sono in crisi di popolarità

12 Dicembre 2011
Secondo un recente sondaggio la fiducia dei cittadini nei partiti politici non è mai stata così bassa, si attesta infatti su di un risibile 14%. Una percentuale nettamente inferiore anche a quanto si registrava verso la fine della cosiddetta prima repubblica. Nel pieno di "tangentopoli", cioè in un momento nel quale il prestigio dei politici era profondamente scosso, la percentuale di cittadini che dichiaravano di avere fiducia nei partiti era superiore al 20%.
Una simile caduta di consensi si può riportare in primo luogo alle vicende ultime. Il protrarsi e anzi l’acuirsi della crisi economica rende l’opinione pubblica assai meno indulgente verso la classe politica. Peraltro, anche gli eventi che hanno portato alla nascita del governo Monti non hanno contribuito a risollevare le sorti delle varie formazioni politiche. La gran parte dei partiti sono stati concordi nel farsi commissariare da un esecutivo emanazione della presidenza della repubblica. Anche i partiti che sono rimasti fuori non lo hanno fatto per un soprassalto di orgoglio, ma hanno scelto di stare demagogicamente all’opposizione, per non assumersi la responsabilità di votare le misure che le altre forze politiche dovranno approvare in parlamento.
Se gli avvenimenti recenti hanno certo contribuito ad accrescere la sfiducia nei partiti, non è però giusto schiacciare l’esito negativo del sondaggio tutto sull’attualità, ma occorre collocarlo in una cornice temporale più ampia. Va detto in primo luogo che la diffidenza verso i partiti non è un fenomeno recente. Essa è antica quanto il loro sorgere e non sarebbe difficile trovarne testimonianze copiose negli scrittori politici di qualche secolo addietro. Ma, anche senza risalite tanto indietro nel tempo, occorre tenere a mente che pure nel momento di maggiore splendore della prima repubblica i partiti politici hanno sempre incontrato una notevole diffidenza in una parte non trascurabile della cittadinanza.
Pure, fatta la tara di simili valutazioni storiche, non è pensabile che una volta che sia passata la fase "commissariale" e si riapra il circolo virtuoso della democrazia (elezioni, dialettica aperta tra i partiti, etc.) la fiducia risalga rapidamente. La delegittimazione che il sondaggio registra è il frutto di una crisi innegabile.
Il commissariamento della democrazia cui si è accennato non è stato un golpe improvviso, ma è stato preceduto dall’immobilismo della maggioranza protrattosi per parecchi mesi. A sua volta, tale immobilismo è stato preparato dalla scissione perpetrata a freddo dalla componente finiana, che ha indebolito il PdL, rendendo difficoltosa la marcia del governo. La disarticolazione permanente del quadro politico non è limitata alla destra dello schieramento, ma si registra anche sull’altro versante. Poco dopo la nascita del Pd abbiamo a assistito alla scissione dell’Api e anche all’estrema, dopo gli insuccessi di Rifondazione e dei Comunisti italiani, le varie componenti dell’area non sono state riassorbite dal Pd, ma hanno dato vita a una nuova organizzazione di partito (Sel).
Ho fatto un piccolo calcolo (che non pretendo sia esattissimo, ma che dà sicuramente un’idea del fenomeno). Nel 2008, alle ultime elezioni politiche, hanno avuto accesso in parlamento sei partiti, adesso ci sono almeno diciannove sigle che reclamano la qualifica di partito. In sostanza, le ragioni della crescente disaffezione dell’opinione pubblica rimandano a una ragione fin troppo evidente: abbiamo troppi partiti. Da qui il comprensibile disgusto del cittadino comune che si vede ballare davanti agli occhi un caleidoscopio di sigle, acronimi, etichette che puzzano di finto a un chilometro di distanza.
Il rimedio a una simile situazione è, almeno in teoria, abbastanza semplice. Si dovrebbe riuscire a ridurre il numero dei partiti riportandolo a una dimensione accettabile. A tal fine sarebbe sufficiente una legge elettorale più selettiva (che abbia una soglia di accesso almeno del 10 o del 12 %), dei regolamenti parlamentari più rigorosi (che impediscano la nascita di gruppi tra un’elezione e l’altra), utile allo scopo riuscirebbe anche una riduzione del numero dei parlamentari (basterebbe un taglio del 20%) e, soprattutto, delle altre cariche elettive in ambito regionale e locale.
Certo, tradurre in pratica queste semplici indicazioni non è facile. Pure, chi si accingesse a una simile intrapresa, mettendola al primo posto della propria agenda, potrebbe sicuramente contare sul sostegno di buona parte dell’opinione pubblica.