Ecco perché in Italia il processo non è stato mai “breve”

LOCCIDENTALE_800x1600
LOCCIDENTALE_800x1600
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

Ecco perché in Italia il processo non è stato mai “breve”

Ecco perché in Italia il processo non è stato mai “breve”

16 Novembre 2009

Ripubblichiamo un capitolo del libro di Stefano Livadiotti, Magistrati. L’Ultracasta (ed. Bompiani) dal titolo "Il procuratore s’è distratto. Ottantacinquemila volte", in cui l’autore riscostruisce "tutti i segreti di Vostro Onore e del suo Eldorado di privilegi. I meccanismi di carriera a prova di somaro. L’assenteismo da uffici del catasto. Gli stipendi, le indennità e i gettoni da nababbo. I guadagni extra garantiti dalla politica e dalle imprese. Lo scandalo delle ferie lunghe come a scuola. Gli intrighi correntizi nelle segrete stanze del Csm, dove un mese di lavoro dura tre settimane. I verbali delle sentenze burla della sezione disciplinare, che assolve anche chi dimentica un detenuto in galera. I dati shock sulla giustizia più costosa e inefficiente del mondo occidentale. Dove toga che sbaglia non paga mai". Una lettura illuminante da cui si evince quanto spesso le inefficienze della giustizia italiana derivino dall’incapacità, dall’inerzia e dalla lentezza dei nostri magistrati, che, tra l’altro, sono quelli che lavorano meno che in qualsiasi parte d’Europa. 

"Alla lentezza del sistema si somma la sciatteria di chi l’amministra sapendo che non sarà mai chiamato a rispondere delle proprie cantonate. Così, si può finire in galera per un errore di traduzione. Essere rilasciati per una distrazione del pubblico ministero. O farla franca grazie a una semplice omonimia".

I magistrati italiani non si spaccano certo la schiena. A dare pienamente ragione a Brunetta, e alla sua propostaprovocazione di mettere i tornelli all’entrata dei tribunali, è un documento del 2002. Che porta il timbro dello stesso Csm, l’organismo di governo autonomo della casta togata. L’ha scoperto Daniela Cavallini, del Centro studi e ricerche sull’ordinamento giudiziario della facoltà di scienze politiche di Bologna. La ricercatrice ha dapprima rivelato: “Una recente pronuncia della sezione disciplinare ha cercato di definire degli indicatori generali del lavoro medio esigibile dal magistrato” (La giurisprudenza disciplinare sui ritardi dei magistrati ordinari nell’espletamento delle attività giudiziarie, 2004). Poi, in una nota, s’è presa la briga di riportare testualmente un brano dell’incredibile delibera. Una vera perla: “Quanto al monte ore di lavoro annuo si può convenire su una media di 6 ore giornaliere per un totale di 260 giorni lavorativi l’anno (arrotondato per eccesso, dovendosi sottrarre ai 365 giorni almeno 52 domeniche, 45 [giorni] di ferie, oltre festività soppresse e santo patrono). Il totale del monte ore lavorative l’anno è pari, quindi, a 1560”. Arrotondando per eccesso. Occorre dunque dare una notizia ai tanti capi e capetti dell’Anm prontamente insorti contro l’irriverente ministro. Perché vivono nel chiuso di un mondo tutto loro. Hanno perso il contatto con la realtà. E certe cose non le sanno. Per esempio che il numero di ore lavorate in media all’anno in Italia, tra il pubblico e il privato, è pari a 1800. Che l’Ocse sta a 1750. Il G7 a 1688. Ed Eurolandia a 1601. In ogni caso, si può dunque finalmente dire, ragionando su dati ufficiali e interni alla stessa casta, che su base annua le nostre toghe tuffano il naso nei faldoni per quattro ore e una manciata di minuti al giorno. Più che i tornelli, per loro ci vorrebbe il braccialetto elettronico.

Stachanov non abita dalle loro parti. Basta vedere quanto se la prendono comoda quando si tratta di stendere le motivazioni delle sentenze che hanno emesso in nome del popolo italiano. La legge, per una volta, parla abbastanza chiaro. Dice che vanno depositate il giorno stesso o, nei casi più complessi, entro tre mesi. E anche gli italiani hanno idee precise in materia: secondo un sondaggio della Ferrari Nasi & Grisantelli pubblicato su “Panorama” del 10 gennaio 2008, l’89,7% ritiene necessario rispedire a casa i magistrati che risultano troppo lenti e provocano così scarcerazioni per decorrenza termini. Ebbene, alla fine del 2008 è rimbalzata sulle prime pagine di tutti i quotidiani l’incredibile storia di E.P., giudice del Tribunale di Gela, che ha dimenticato per otto anni di scrivere le motivazioni di una sentenza. E dire che non si trattava di una cosa di poco conto, dal momento che condannava a oltre un secolo di carcere, per associazione mafiosa, alcuni pericolosi appartenenti a Cosa Nostra. Gente, per intenderci, della famiglia del boss Piddu Madonia, che così, grazie alla distrazione del giudice, se ne era tornata allegramente in libertà.

Già sanzionato due volte dal Csm, con una perdita complessiva di 26 mesi di anzianità professionale, E.P. nel frattempo era diventato pubblico ministero a Milano. E ci ha finalmente rimesso il posto solo quando, nel giugno del 2008, dopo un’indignata lettera del presidente Giorgio Napolitano, il Csm s’è visto costretto a decidere la sua rimozione dall’ordine giudiziario. Lui non s’è scomposto più di tanto: anziché aprire un cocktail bar su una spiaggia dei Caraibi e cercare di farsi dimenticare ha pensato bene di annunciare, secondo le migliori tradizioni, un ricorso in cassazione. E siccome non è che la suprema corte si pronunci proprio a tambur battente, è rimasto ancora al suo posto, dove ha fatto in tempo a collezionare una nuova polemica. È successo quando è diventato titolare dell’inchiesta su M.E.M., operaio marocchino arrestato per il presunto stupro di un bambino, spedito agli arresti domiciliari in attesa di giudizio e risultato uccel di bosco dopo l’approvazione, il 20 febbraio 2009, del decreto che ha inasprito le misure cautelari per le violenze carnali. L’orco fugge dai domiciliari; bufera sul Pm lumaca, ha titolato “il Giornale”. E.P., che magari questa volta neanche c’entra, si è negato ai giornalisti. Ed è rimasto in attesa della sentenza della cassazione. Chissà che non gli vada bene. Come, del resto, al collega A.M., ex presidente della sezione giurisdizionale della corte dei conti della Calabria (quindi non un magistrato onorario), la cui storia, se non fosse stato per il solito Stella (“Corriere della Sera”, 23 febbraio 2008), sarebbe rimasta sotto silenzio. A metà del 2002, il magistrato contabile è andato in pensione per raggiunti limiti di età, lasciandosi alle spalle una lunga scia di decisioni che non aveva mai messo nero su bianco. “Da allora, pian pianino, ha depositato 23 vecchie sentenze nel 2003, cinque nel 2004, sette nel 2005 e, dopo essersi preso nel 2006 un anno di riposo senza scrivere neanche un verdetto, s’è rifatto vivo con sei deliberazioni depositate nel 2007 e una nel 2008. Totale: 42 sentenze (una ammiccò d’averla ritrovata dietro un calorifero, dov’era chissà come scivolata) in cinque anni e passa.” Scrive ancora Stella: “Il suo primato personale Sua Eccellenza lo mise a segno il 21 giugno 2007, solstizio d’estate e festa di san Luigi Gonzaga. Fu in quella data memorabile che depositò ben tre sentenze datate 24 giugno 1998. Cioè tre giorni prima che scoccassero i nove anni di attesa. Ammettetelo: tre miracoli”.

E.P. e A.M. sono in buona compagnia. Su “Libero” del 26 settembre del 2008, Giancarlo Lehner ha ricapitolato i dati forniti dallo stesso ministro della giustizia sui tempi di deposito dei provvedimenti giudiziari: “Alfano, dunque, ci ha detto che, riguardo al penale, nel 2006 s’è registrato un ritardo superiore a quattro anni per sette sentenze; tra i cinquecento e i mille giorni per altre 129; tra i trecento e i cinquecento giorni per 1052; dai cento ai trecento giorni per 91. Sempre nel 2006, nel civile due sentenze hanno superato gli otto anni di ritardo; una i millecinquecento giorni; un’altra i mille; 252 hanno tardato tra i cinquecento e i mille giorni; 1740 sono giunte dopo 300-500 giorni”.

Quisquilie rispetto alla vicenda in cui ci si può imbattere se si ha la pazienza di frugare ancora tra le note dello strepitoso studio di Cavallini (La giurisprudenza disciplinare sui ritardi dei magistrati ordinari nell’espletamento delle attività giudiziarie). Il caso, davvero da Guinness dei primati, è quello di un procuratore capo cui sono stati contestati: “L’omessa registrazione di 85.938 procedimenti penali di competenza del pubblico ministero presso la pretura […] nonché di complessive 28.235 notizie di reato contro ignoti […] la mancata esecuzione di 573 pene detentive […] il difetto di qualsiasi attività da parte del pubblico ministero relativamente a 242 procedure […] la prescrizione di varie pene pecuniarie, essendo stata omessa, in alcuni casi, la richiesta di conversione al magistrato di sorveglianza ed essendo stata, in altri casi, detta richiesta inviata tardivamente”. Per la cronaca, il procuratore, per il quale era stato avviato un procedimento disciplinare davanti al Csm, è stato prosciolto, nel giugno del 1999, a causa della situazione di emergenza del suo ufficio. Dato, questo, che per una volta appare oggettivamente incontestabile. E che non rappresenta davvero un caso isolato, almeno a sentire il racconto fatto da Emilio Sirianni, quarantanovenne giudice del lavoro a Cosenza, sulla procura di Locri, finita nelle mani di un giovanissimo collega dopo la morte del suo capo: “Quando questi [il procuratore ragazzino] fu trasferito, l’ufficio venne affidato a uno dei più esperti Pm della procura di Reggio Calabria. Il quale accertò, alla fine del 2003, l’esistenza di 4200 procedimenti con termini di indagine scaduti da anni, su un totale di 5000, e altri 9000 procedimenti fantasma, cioè risultanti dal registro, ma inesistenti in ufficio. Tutto, peraltro, già riscontrato da un’ispezione del 2001, senza che nulla accadesse”.

E sono stati sempre i segugi del ministero a scoprire, alla fine del 2008, in un armadio della procura di Bologna, 2321 fascicoli di indagine, ormai ingialliti. Il tribunale aveva fissato la data di inizio dei processi, ma le carte erano poi finite sotto chiave senza che qualcuno si preoccupasse di procedere alle notifiche alle parti. Dentro c’era l’intero codice: furti, truffe, ricettazioni, appropriazioni indebite, infortuni sul lavoro. Quasi tutto prescritto. Nessun pubblico ministero ha mai sentito la necessità di chiedere che fine avesse fatto la propria inchiesta. E i quattrini spesi per perizie, intercettazioni e quant’altro sono andati in fumo. Anzi, in tasse per i contribuenti.

È in questo quadro che, nell’autunno del 2008, il bulldozer Brunetta ha sparato la sua provocazione sui tornelli. Le toghe hanno reagito con la consueta stizza. Dando dell’incompetente al ministro, tanto per cominciare. Spiegando poi che se non stanno in ufficio è perché mancano i computer, le scrivanie e financo le sedie. Giurando infine di non risparmiarsi tra le pareti domestiche in un lavoro che non conosce weekend né feste comandate.

Ma l’immagine molto british del magistrato che scrive le sentenze in veste da camera, con il bicchierino di sherry in mano e magari il labrador accucciato tra i piedi, non ha davvero fatto breccia. Anzi. Gli italiani hanno contato fino a tre, poi si sono schierati in massa col ministro: l’81,6%, secondo un sondaggio del Corriere.it di lunedì 27 ottobre 2008; addirittura l’84% tondo, in base a una rilevazione effettuata lo stesso giorno da Sky Tg24. A convincere gli ultimi incerti ha provveduto, ventiquattr’ore dopo, un’incauta intervista, alla “Stampa”, del procuratore della repubblica di Vigevano, quello che ha sul tavolo il dossier dell’omicidio di Chiara Poggi. Il titolare dell’inchiesta di Garlasco, uno dei gialli dell’estate, non si tirava certo indietro: “Mi piacerebbe parlare con il ministro a tu per tu,” annunciava baldanzoso, “mi sa che ha dei consiglieri che non sanno come lavoriamo”. Peccato per lui che nel cappello dell’intervista il cronista, Fabio Poletti, avesse messo in risalto un dato: il magistrato risiede stabilmente, circondato dall’affetto dei suoi cari, a Roma. Come dire: a 614 chilometri dal suo ufficio. Direzione Sud-Est.

A molti è così tornata in mente l’incredibile vicenda di C.C., 52 anni, giudice per le indagini preliminari a Vicenza, affetta, secondo una montagna di certificati medici, da “grave patologia lombo-sacrale con discopatie multiple da iperlordosi e rigidità del rachide cervico-dorso-lombare con contrattura della muscolatura paravertebrale”. Praticamente, un’invalida. Costretta a chiedere agli uffici “una sospensione del lavoro non breve per evitare l’aggravarsi ulteriore della patologia”. In soldoni, novantotto giorni nel 2004, più altri nove mesi e mezzo nel 2005. Solo che, a metà novembre di quest’ultimo anno, sul sito del Gip era uscito l’entusiasmante resoconto della regata velistica che la vedeva impegnata: “È difficilissimo governare un sessanta piedi che vola impazzito a fare il surf su onde oceaniche gigantesche. Sono stata molto al timone e vi assicuro che sentire la poppa sollevarsi di decine di metri e vedere la prua della barca inabissarsi dentro il mare dopo una vorticosa e velocissima planata è una delle esperienze più estreme della mia vita”. Niente male davvero, per una quasi costretta alle stampelle. Davanti all’evidenza, neanche la mielosa sezione disciplinare del Csm poteva fare orecchie da mercante come tante altre volte. Così, l’intrepida navigatrice s’è beccata il trasferimento d’ufficio con la perdita di un anno di anzianità. A quel punto, sdegnata, s’è dimessa dalla magistratura. Non prima però di aver scolpito due perle. “La giustizia ha tanti problemi seri e invece si perde tempo con questa storia della barca a vela.” “Di che cosa devo vergognarmi, di aver portato i colori dell’Italia in Brasile?”

Con una simile vicenda fresca di polemiche sulla stampa, pochi si sono meravigliati quando, lunedì 3 novembre del 2008, “il Giornale” è partito lancia in resta contro i magistrati scansafatiche. Il quotidiano della famiglia Berlusconi ha citato dati che poi dirà di aver attinto dal ministero della giustizia e dal Csm. E ha parlato di 16 udienze all’anno nelle corti d’appello per il settore civile e del lavoro, e di una media di 28 in quelle penali. Dal ministero hanno rettificato, ma solo parzialmente: la media mensile di udienze nelle corti d’appello, hanno fatto sapere, è pari a 5 nel civile e a 6,6 nel penale. L’Anm s’è messa a strepitare: “La produttività media dei magistrati italiani è particolarmente significativa anche nel raffronto con le altre realtà europee,” è stata la replica del potente sindacato delle toghe. Che però s’è guardato bene dal portare qualche straccio di numero a sostegno della sua bizzarra tesi.

Alla lentezza si somma la sciatteria di chi è chiamato ad amministrare il sistema giudiziario. “Scarsa produttività. Alta disorganizzazione,” recitava il 5 marzo 2009 l’inchiesta di copertina dell’“Espresso” (Processo ai giudici) firmata da Gianluca Di Feo. Scriveva il capo dei segugi giudiziari del settimanale di largo Fochetti: “I giudici dei tribunali sono passati da 654 fascicoli chiusi ogni anno nel 2001 a soli 533 nel 2006. È come se un delitto su cinque venisse dimenticato. Ma se si cerca di dare un peso alla statistica, allora diventa ancora più grave la frenata delle corti d’appello: i 177 casi annuali si sono ridotti a 145”.

Il fatto è che i magistrati, spesso con la complicità del parlamento (i cui inquilini hanno uno stipendio ancorato a quello di un presidente di sezione della corte di cassazione), sono riusciti a disegnare per se stessi un meccanismo di carriera unico al mondo. Dove la meritocrazia non ha alcun diritto di cittadinanza. Vengono promossi, e guadagnano di più, tutti insieme appassionatamente, solo in base all’anzianità professionale. Chi lavora bene non viene premiato. E chi si limita a sbadigliare, salvo rarissime eccezioni, non smette di crescere in termini di status. Se non bastasse, la madre di tutte le caste s’è garantita una sorta di salvacondotto: per legge, e in barba al referendum sulla responsabilità civile del giudice, non risponde delle cantonate che prende. Non basta. Ha l’ennesimo privilegio di poter amministrare al suo interno, sempre in nome del troppo abusato vessillo dell’indipendenza della magistratura, i pochi procedimenti disciplinari che la riguardano, i quali finiscono quasi sempre a tarallucci e vino. La regola è infatti l’assoluzione. Nei casi più gravi si arriva all’ammonizione, che è l’equivalente della lavata di testa che si riserva a un ragazzino un po’ discolo. Non per niente, gli addetti ai lavori la chiamano “disciplina domestica”. Ma sarebbe più giusto chiamarla “addomesticata” (copyright Carlo Federico Grosso, autorevole giurista e già vicepresidente del Csm).

Con una simile rete di protezione, le toghe, quando lavorano, spesso lo fanno con la mano sinistra. E si vede. Basta leggere con attenzione le cronache dei giornali, o interrogare qualcuno che frequenti un grande tribunale, per sentire storie che sembrano inventate. E che sono, invece, sciaguratamente vere. In certi casi, se non fossero tragiche, farebbero ridere a crepapelle. Vicende come quella del filippino che s’è fatto sei mesi di custodia cautelare nel carcere milanese di San Vittore. Era accusato di sequestro di persona e minaccia aggravata. Poi una mattina il magistrato s’è svegliato con un dubbio che gli ronzava per la testa. E ha deciso di riascoltare, questa volta con l’aiuto di un interprete, la presunta vittima dell’aggressione. La corretta traduzione delle sue parole ha rivelato che non aveva mai accusato di alcunché lo sventurato filippino. Liberato, a quel punto, con tante scuse.

O la storia della “banda delle ville”, quattro kosovari e romeni che avevano a lungo seminato il panico nelle campagne del bresciano, finché non erano stati acciuffati e messi sotto chiave. Il 1° maggio del 2008, dopo un anno di detenzione, hanno riconquistato la libertà. Perché, molto semplicemente, la procura s’è dimenticata di chiedere la proroga della custodia cautelare.

Una banale distrazione di Vostro Onore è valsa la libertà anche a S.A., un marocchino condannato a Padova per lo stupro di una ragazzina di 14 anni. In questo caso al magistrato è passato di mente di notificare la conclusione delle indagini a uno dei suoi due difensori. All’inizio di marzo del 2009, Cosimo Romanello, a lungo latitante (catturato per un peccato di gola: non aveva saputo resistere alla tentazione delle zeppole fritte della moglie), considerato dagli inquirenti un elemento di spicco delle cosche della Locride e braccio destro del capobastone di Gioiosa Jonica, Giuseppe Coluccio, è tornato a piede libero insieme a tre suoi compari: il giudice per l’udienza preliminare, C.G., fino al 26 novembre del 2008 non ha mai trovato il tempo di depositare la sentenza con cui ventiquattro mesi prima l’aveva condannato in primo grado con rito abbreviato. Il Gup è pure recidivo: anni prima, e per gli stessi identici motivi, aveva fatto scarcerare tre tizi accusati del tentato omicidio di un ispettore di polizia.

Negli stessi giorni, ha lasciato il carcere dopo una brevissima detenzione il trentasettenne camionista siciliano G.B., trovato con un carico di quindici chili di cocaina ben stipati a bordo e quindi accusato di essere un corriere della droga: il Pm piemontese autore dell’interrogatorio s’è scordato di spedire il verbale al tribunale della libertà. Sembra invece tratto da un film con Totò e Peppino il pasticcio combinato a Catanzaro, dove una banda di estorsori ha riconquistato la libertà perché la richiesta di rinvio a giudizio è stata comunicata non ai difensori ma a dei loro omonimi.

Più difficile individuare la causa dello svarione raccontato da Lehner sulle colonne di “Libero”: “Dei cittadini sono stati spediti dietro le sbarre per un reato (istigazione alla corruzione) che non prevede la custodia cautelare. Come è stato possibile? Le scuole di pensiero si riducono a due. È un caso di doppia ignoranza crassa, che dà ragione alla riforma Gelmini. È l’addizione di un Tizio, il pubblico ministero, che non sa, e di un Sempronio, il giudice per le indagini preliminari, che non fa, somma questa che dà ragione al bellum fannullonicum intrapreso da Brunetta”.

Qualche volta l’errore si trasforma in tragedia. Radiocarcere, la rubrica del “Riformista” di Antonio Polito, ha raccontato l’incubo di M.C., l’allevatore di Orune associato alle patrie galere nel 1977, quando aveva 38 anni. Assolto per due volte dall’accusa di aver partecipato al sequestroomicidio di M.O., imprenditore milanese rapito il 31 gennaio del 1977, C. fu poi condannato a trent’anni dalla corte d’appello di Bologna. Solo nel 2004, dopo le confessioni di due ex latitanti che lo scagionavano del tutto, la cassazione accolse la richiesta di revisione del processo, trasmettendo gli atti alla corte d’assise d’appello dell’Aquila, che il 18 luglio 2007 l’ha assolto, dopo trent’anni con indosso il pigiama da detenuto (caso, peraltro, più unico che raro). Abbiamo preso un granchio, ha ammesso lo stato: gli riconosceremo un equo risarcimento. Ma quanto vale, in euro, la vita distrutta di C., di sua moglie e dei tre figli? Dipende.

Nel novembre del 2008, per esempio, il pescatore tarantino D.M., nella procedura di equa riparazione per errore giudiziario nei confronti del ministero dell’economia, si è visto riconoscere un risarcimento record di 300.000 euro per ogni anno di ingiusta detenzione. Che fanno comunque meno di mille euro al giorno per una storia agghiacciante. Iniziata alle 14.30 del 30 gennaio 1991, quando D.M. era stato prelevato nella sua casa del rione Tamburi e accusato dell’omicidio di due guappi, accoppati mezz’ora prima davanti alla scuola del quartiere. Contro di lui c’era la testimonianza di tre amici delle vittime, minorenni analfabeti, incapaci di rileggere il verbale sottoscritto. A suo favore, un duplice alibi di ferro: poco prima della mattanza, D.M. era in una salumeria, dove si perdeva in chiacchiere con un appuntato dell’Arma; subito dopo, si trovava nel salotto di due vicini, impegnato a riparare la vasca dei pesci rossi. Per di più, laddove il killer aveva sparato come in un film sulla Chicago degli anni trenta, sul pescatore la prova del guanto di paraffina aveva dato esito negativo. Niente da fare. D.M. era finito dietro le sbarre. Condannato a 21 anni, che sono poi diventati 22 perché si era sfogato scrivendo a un ufficiale dell’Arma e dicendosi vittima di una persecuzione e i magistrati gli avevano affibbiato altri dodici mesi per calunnia. Dopo sette-processi-sette (compresi tre rinvii in cassazione) il suo avvocato ha trovato alcuni verbali di collaboratori di giustizia ritenuti attendibili dallo stato. E finalmente i pentiti hanno raccontato la verità: poche ore prima di essere assassinati, i due inconsapevoli balordi avevano scippato la madre di uno dei boss più temuti di Bari, con ciò stesso firmando la loro inappellabile condanna a morte. Senza aver mai capito perché c’era finito, D.M. è così uscito dal circuito carcerario dopo quindici anni, due mesi e 21 giorni, indennizzati con quattro milioni e mezzo di euro. Un altro caso di errore giudiziario da Guinness dei primati potrebbe essersi annunciato quando, nel febbraio del 2006, il tunisino B.E.S., condannato a quattro ergastoli per altrettanti omicidi, ne ha confessati altri undici. Tutti ai danni di donne sole, anziane e vestite di nero (proprio come si presentavano la mamma e la nonna quando, da piccolo, lo picchiavano). E commessi tra il 1994 e il 1997 nel triangolo fra Taranto, Foggia e Lucera. Se è vero ciò che dice B.E.S., per i delitti di cui si dichiara colpevole sono stati condannati a complessivi cento anni di galera otto innocenti: cinque hanno finito di scontare le pena, uno s’è suicidato in carcere e due sono ancora dentro dopo undici anni. Si tratta di casi estremi, ma non isolati. Il 14 febbraio del 2008 il garante per i diritti dei detenuti della regione Lazio, Angiolo Marroni, ha raccontato di un nigeriano di 39 anni incarcerato con l’accusa di essere un trafficante internazionale di droga. Dopo quattro anni e quattro mesi trascorsi al fresco, nel corso dei quali è pure riuscito a prendere la laurea della facoltà di ingegneria informatica on line di Tor Vergata, una corte d’appello l’ha assolto con formula piena da tutte le accuse. Lui con la droga non aveva proprio niente a che fare.

L’errore giudiziario non è a senso unico. Per tanti carcerati che si rivelano innocenti, c’è anche qualche colpevole che la fa franca. Potrebbe essere il caso di D.O., trentatreenne muratore di Ferrara. Quando, nella notte del 25 novembre del 2004, sua moglie era stata assassinata a colpi d’ascia nella casa del nuovo convivente, lui aveva subito confessato. Per poi ritrattare. In primo grado s’era beccato vent’anni. Poi, in appello, gli stessi indizi erano stati letti al contrario e questa volta giudicati insufficienti alla condanna. Così, il 27 febbraio 2008, è tornato libero. E tale resterà anche dopo una nuova ammissione di colpevolezza, resa ai poliziotti all’inizio del 2009. La sentenza, infatti, è ormai definitiva. E non può più essere messa in discussione.