“Ecco perché la globalizzazione è entrata in crisi”. Parla Alessio Postiglione

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“Ecco perché la globalizzazione è entrata in crisi”. Parla Alessio Postiglione

“Ecco perché la globalizzazione è entrata in crisi”. Parla Alessio Postiglione

24 Giugno 2020

Popolo e populismo, tutto quello che c’è da sapere sulla crisi della globalizzazione e la rinascita italiana (ed europea). Le riflessioni di Alessio Postiglione

Populismo è una parola abusata. Essa può rimandare all’atteggiamento che un leader politico ha nei confronti del popolo o, più in generale, ad una visione della società in cui chi detiene il potere possiede qualità salvifiche nei confronti delle masse. Negli ultimi tempi, il populismo è diventato un qualcosa con cui liquidare comportamenti volti a semplificare l’attuale quadro politico, sebbene sia una salvezza che quest’ultimo resti complesso in quanto rappresentativo di tutte le istanze sociali.
Nel 2019 Angelo Bruscino e Alessio Postiglione hanno dato vita ad un interessante saggio edito da Cairo incentrato sulla crisi dell’Europa e la possibilità di rinascita per l’Italia. Il libro si intitola “Popolo e populismo” e racchiude numerosi temi di attualità che i due autori trattano con dovizia di particolari, senza mai scadere nel già detto o già sentito. Della crisi della globalizzazione – e non solo – ne abbiamo discusso con Alessio Postiglione e ne abbiamo tratto un interessante colloquio che riportiamo qui di seguito.

Alessio, leggendo il vostro saggio mi ha colpito questa frase: “i migliori interpreti della globalizzazione non sono le democrazie liberali e tantomeno l’Europa, ma Paesi non democratici, a iniziare dalla Cina, dove il mercato non è un meccanismo dal basso, ma imposto dall’alto, con aziende di Stato”. 

 

Viviamo l’epoca del “capitalismo politico”, per citare Alessandro Aresu, c’è solo il capitalismo all’orizzonte, seppur nella versione liberale occidentale e in quella autoritaria-burocratica della Cina, ad esempio: il successo di Pechino, di “democrature” come la Russia e la Turchia, dei Paesi del Golfo, pongono l’interrogativo se il capitalismo non funzioni meglio in una cornice burocratica e illiberale. Io penso che il modello euroatlantico sia alla fine superiore – Piketty dimostra che l’Europa può contare 70.000 miliardi di patrimoni privati, contro solo 3000 detenuti dalla Cina sotto forma di fondi sovrani e riserve della Bank of China -, ma reputo anche che, parafrasando Adorno e Horkheimer, l’efficienza (dei mercati) e l’equità (garantita dal sistema sociale) siano spesso inversamente proporzionali. E non è un caso se in Occidente, da almeno 50 anni, si parli di crisi della democrazia. Competiamo perché non siamo delle vere democrazie liberali, ma dei “comitati d’affari poliarchici”, formati cioè da élites selezionate con meccanismi abbastanza pluralistici.

Quali sono oggi i nemici della società aperta? E’ difficile identificarli?

 

No, è semplicissimo e – mi spiace per la sinistra corifea della globalizzazione -, ma sono proprio le classi subalterne che essa dovrebbe rappresentare. Classi lumpenizzate che “resistono” ai meccanismi di mercatizzazione dell’esistenza magari in maniera scomposta, ma con una dinamica già colta da Polany ne “La grande trasformazione”, quando parla di “capitalismo disembedded”, che si articola, cioè, autonomamente e in contrapposizione rispetto alle dinamiche della società. Esempio è proprio l’ideologia “no border”. Il pensiero politico è da 2000 anni che si basa su concetti come popolo (declinato, già per i greci, in ethnos, ethos, genos, topos, logos), territorio e sovranità, basti ricordare Bodin. Magari questi concetti meritano di essere decostruiti, non lo escludo. Ma non si cancellano 2000 anni di pensiero politico dicendo che popolo, sovranità e territorio sono solo “costruzioni sociali” e se ci credi sei un bifolco.

 

Il covid ha rafforzato o meno il fenomeno della globalizzazione?

 

Ha rafforzato la deglobalizzazione. Già da prima di Trump, gli Stati hanno ripreso a promuovere occultamente politiche e agende protezioniste. I sovranisti, le sinistre e le destre “alternative” professano apertamente il neomercantilismo, ma anche i partiti mainstream hanno cambiato marcia. Non è un caso che Macron, l’europeista liberal per eccellenza, nella narrazione che ne danno molti media, parli spesso della UE come di “Unione che protegge”, in continuità con gli interessi sistemici della Francia che, a partire dalla Politica Agricola Comune, si basa sulla protezione “sovranista” del proprio interesse nazionale. Continueremo in questa direzione ma si tratta ovviamente di trend che si produrranno a partire dal conflitto.

 

Quindi capire il populismo vuol dire capire la crisi della cultura socialdemocratica…

 

Certamente. Perché col populismo le masse che votavano socialisti e comunisti si spostano “a destra” o comunque abbandonano le sinistre tradizionali che, sotto la spinta di quella che Robert Michels definiva “legge ferrea dell’oligarchia”, hanno smesso di rappresentare le masse per diventare partiti oligarchici e autoreferenziali.

 

Davvero le destre riescono a difendere la sovranità popolare?

 

Apparentemente sì, in pratica ho i miei dubbi. Riconosco piena legittimità alle posizioni di autori della “nouvelle droite”, che è un fenomeno eminentemente filosofico. Quando parliamo di politica, però, la destra è storicamente padronale e già il fascismo si era riempito la bocca di destra sociale, salvo rappresentare gli interessi delle classi dominanti. Certo, le destre sovraniste sembrano i guardiani di un capitalismo fordista nazionale meno ostile ai ceti subalterni del capitalismo finanziario transnazionale, difeso dai partiti liberal. Il tema, per le classi popolari, orfani della sinistra socialista, sarebbe non votare il meno peggio ma trovare un attore politico che veramente metta al centro dell’agenda redistribuzione e difesa del lavoro. In attesa di questa offerta politica, keynesismo, protezione del lavoro e relocalizzazione delle attività produttive sono le cose che maggiormente stanno a cuore, non solo ai più fragili, ma anche al ceto medio.