Ecco perché neanche Monti taglierà l’enorme spesa pubblica italiana
21 Febbraio 2012
Lo sviluppo dell’economia dei servizi, il declino della manifattura e l’assunzione del valore delle azioni in Borsa come misura del successo di un impresa hanno condotto, a metà degli anni ’80, all’affermarsi del modello economico statunitense. Con l’adozione di questo modello basato su deregulation, produzione di massa e minima legislazione sociale il Welfare è diventato prima oggetto di dibattito, quindi motivo di confronto politico, infine causa di crescente tensione sociale. Diversamente da quanto accaduto altrove in Italia il Welfare sembra immune a tutto, anche al governo Monti, e qualcuno comincia a chiedersi come ciò sia possibile.
La sicurezza sociale si istituzionalizza con le nozze tra il capitalismo e la democrazia dopo la IIa Guerra Mondiale ma si era già affermata come necessità d’ordine politico con la crisi del 1929. In quegli anni l’Europa fu travolta dagli effetti sociali (più che economici) della disoccupazione di massa tanto da soccombere al Nazi-fascismo. Tempo fa Vito Tanzi e Ludger Schuknecht (La spesa pubblica nel XX secolo. Una prospettiva globale. Firenze University Press, Firenze 2007) hanno diviso in tre periodi la vita dello stato sociale: dalla rivoluzione industriale (1760/1830) alla prima assicurazione sociale di Bismarck (1889), definito ‘della grande assenza’; dal primo conflitto mondiale (1918) al 1960 definita ‘dello sviluppo virtuoso’ per la corrispondenza che presenta tra costo del welfare e pressione fiscale; dalle nazionalizzazioni (1960) ad oggi definita ‘dello sviluppo esponenziale’ per la spirale fiscale come fonte di sostegno.
Le conclusioni dei due ricercatori sono un pugno allo stomaco, ci sarebbe difatti sproporzione fra spesa sociale ed efficacia del welfare. Questo fa sì che la partita debba essere giocata sul livello dei costi che si chiede allo Stato di sostenere il che pretende l’adozione integrale delle tesi di William Beveridge, il padre della biologia sociale. Quella di Lord William Beveridge è una ricetta complessa che parte dalla premessa che il bisogno non può essere abolito. Il suo programma però è più articolato di come hanno voluto interpretarlo le politiche socialiste occidentali.
Se difatti da un lato essa impegna gli Stati a equiparare ‘protezione sociale’ con ‘reddito sicuro’ dall’altro pretende equilibrio fra assegni famigliari, garanzie sanitarie e dell’impiego e flessibilità dei contratti di lavoro, temporaneità del sussidio di disoccupazione, limitazione dei sostegni alla disoccupazione di massa (Il piano Beveridge e la relazione di sir William Beveridge al governo britannico sulla protezione sociale Editore Percy Lund Hunphries and co. Ltd Londra 1943). Un’interpretazione interessata di Beveridge ha invece fatto sì che del Welfare finissero per beneficiare in sempre di più mentre i relativi costi fossero sostenuti da sempre di meno con proventi derivanti da incrementi impositivi e non da reddito dello sviluppo.
Con questo non si intende sostenere che Beveridge postulasse equidistanza dal Leviatano inflessibile di Hobbes e lo Stato/grande famiglia di Locke, perché non c’è in lui, come non c’era in Bismarck, alcuna emotività nella scelta di assegnare allo Stato compiti di sostegno e benessere. In Beveridge era solo preminente la preoccupazione per l’ordine pubblico e la pace sociale. Questa preoccupazione bastò ai cultori dell’universalizzazione dei diritti di fare del Welfare uno strumento di egualitarismo e imporre allo Stato l’assunzione dei compiti di benessere su scala generale. Diversamente -si diceva- l’esercizio delle libertà individuali ne sarebbe rimasta compromessa. Ma era una forzatura densa di implicazioni.
Accanto alla pretesa emancipativa dalla potestà statale (libertà negativa e positiva) emerse infatti la pretesa rivendicativa della potestà statale (partecipativa), con la quale si ottenne di rimodulare i criteri con cui conciliare gli interessi collettivi alla luce dell’interesse generale: il Welfare era divenuto il garante di un patto leonino tra i beneficiari di libertà individuali (divenute collettive) e i titolari dei corrispondenti doveri collettivi (divenuti obblighi individuali). Ed è andata avanti così fino a quando i costi hanno iniziato a insidiare la stabilità finanziaria dei Paesi e alcuni governi -come dice Amrtya Sen (La libertà individuale come impegno sociale Editori Laterza Roma Bari 2007 p. 83)- ‘hanno smesso di fingere che le risorse da destinare al Welfare fossero illimitate’. A quel punto il Welfare è stato affrontato come criticità da risolvere, tranne che in Italia.
Nel belpaese il percorso di riforma del Welfare si presenta accidentato oltre il limite per una specifica condizione politica: la mancata denuncia storica del patto nel rispetto del quale è vissuta dal secondo dopoguerra fino al 1992.
Questo Patto prevedeva le forze di Centro e di Sinistra Riformista al governo e la Sinistra rivoluzionaria radicale e progressista fuori dal governo ma partecipe delle scelte economiche di spesa. Nel dopoguerra il Patto non perseguì la ricostruzione industriale in senso occidentale ma la riduzione delle disuguaglianze come prevenzione dalla violenza politica e civile. Poi negli anni 1960 optò per un sistema economico più che misto: lavoro come panacea di ogni forma di miseria, indebitamento pubblico per saziare la fame di alloggi, vera o indotta; livelli occupazionali e salariali nello Stato e nel parastato incompatibili con il sistema economico nazionale; sistema articolato di imprese pubbliche per surrogare la (in)esistente impresa privata.
A partire dagli anni 1970 gli eredi diretti della Classe Politica che aveva stilato il Patto convennero sull’impossibilità della rivoluzione e pensarono di mettere all’incasso la cambiale emessa a sua garanzia: contavano sull’imborghe-simento della classe operaia e un sistema giuridico i cui vessilli rimanevano i principi ideologici simbolo della riforma agraria degli anni 1950 (limiti economici e sociali alla proprietà privata, supremazia dei diritti dei lavoratori dipendenti, incondizionata libertà sindacale, subordinazione dell’economia di mercato alle esigenze occupazionali e dell’apparato statale). Arrivò però una risposta , politicamente e socialmente, violenta che li convinse a rinnovare il Patto e allargarlo alle Organizzazioni Sindacali.
Seguì un nuovo ricorso al debito pubblico e il rifiuto di prendere atto che lo sviluppo economico equilibrato doveva scommettere sulla modernizzazione della produzione tradizionale privata che in Italia aveva dato buona prova tra il 1959 ed il 1963 nel Veneto con l’industria manifatturiera e nel Piemonte con l’industria meccanica. Inoltre di considerare che l’intervento pubblico in economia se prolungato, strozza l’industria privata, droga il costo del lavoro e favorisce liason dangereux. Si estese il controllo pubblico sull’intero spettro dei comparti produttivi del Paese grazie a tre holding di Stato (IRI ENI EFIM) i cui vertici (insieme a quelli delle aziende operative riuniti in una organizzazione per le relazioni sindacali separata da Confindustria, l’INTERSIND) furono liberati dall’obbligo di creare le condizioni per lo sviluppo dell’impresa privata e agevolati nella competizione per i nuovi mercati.
L’abbandono della ‘ortodossia economica’ costituì la condizione per dare vita al Centrosinistra quindi (dopo il fallimento del Compromesso storico) al Pentapartito. Con quell’abbandono si decise di utilizzare la debolezza dell’imprenditoria nazionale per creare una classe manageriale pubblica della quale la Politica decideva sorte e destini. Il prezzo di quel Patto sono state le stagioni di violenza, sociale e politica, regalate alla generazione del dopoguerra e ai suoi figli nonché i debiti economici e sociali che gravano sui suoi nipoti. E, in saldo, la crisi di rappresentatività dei partiti e il crollo etico della politica che hanno reso ineluttabile la soluzione tecnica di governo. E’ in conclusione dalla mancata denuncia di quel Patto -per il quale ancora oggi qualcuno sembra tradire nostalgia – che deriva l’impossibilità di riformare il Welfare anche solo al fine di adeguarlo alla dottrina Beveridge.