Ecco perché un liberale dice sì al Family day

LOCCIDENTALE_800x1600
LOCCIDENTALE_800x1600
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

Ecco perché un liberale dice sì al Family day

28 Aprile 2007

A prima vista, da un punto di vista meramente astratto, che un liberale possa sentirsi avverso all’introduzione di una regolamentazione giuridica di unioni tra persone che configurino una modalità istituzionale diversa da quella della famiglia fondata sul matrimonio, può sembrare una posizione contraddittoria. Dal punto di vista pratico, invece, lo è assai meno. E non soltanto per gli ottimi motivi addotti da Giovanni Orsina nell’ultima parte del suo intervento, nella quale si sottolinea l’imprudenza dell’allontanarsi dalla tradizione senza che sia certo che la situazione cui si darà vita sia migliore di quella che si lascia. Agli argomenti illustrati da Orsina vien soltanto da aggiungere che il liberalismo è una teoria politica che concependo i diritti come universali li distingue dalle sia pur legittime aspettative individuali, e che li ritiene tali soltanto in quanto siano vantaggiosi tanto per i singoli individui quanto per la società. Quei diritti hanno quindi la funzione di ridurre l’incertezza.

Che un individuo, nei limiti posti dalla tradizione liberale dei diritti naturali e dalla legge positiva, sia proprietario del suo corpo e di gestire i propri sentimenti non è quindi in discussione. Questi diritti, ovviamente, comprendono anche quello di legarsi in modo più o meno duraturo con chi si vuole. E questo, in una società che ormai non si scandalizza più di nulla (e non saprei dire se sia un bene o un male), gli conferisce, altrettanto ovviamente, anche il diritto di convivere, se vuole stabilmente, con una persona dello stesso sesso. A prima vista, si dovrebbe quindi concludere che tutto va bene e che ogni tipologia di unione tra individui sia buona perché, aumentando i margini della libertà individuale, in qualche modo arricchisce la società e con ciò stesso la rende migliore. Di fatto, senza che ciò si configuri come una critica al liberalismo, sappiamo bene che non è affatto detto che ciò che un individuo, in un determinato momento, reputa buono, o un suo diritto, sia automaticamente e contemporaneamente buono, riconosciuto come tale, o come vantaggioso, per la società. La soluzione liberale al problema non è però quella di anteporre il ‘bene’ della società ai diritti degli individui, ma di considerare tali, e proteggere, soltanto quelli che, per esperienza, sono ‘buoni’ contemporaneamente per entrambi.

Non mi soffermo sui pregi e sui limiti della soluzione, ma passo immediatamente alla questione sollevata da Maurizio Ferrera e ripresa da Orsina.

Se si ragionasse nei termini del liberalismo verrebbe immediatamente da pensare che l’unica difesa possibile dell’istituto matrimoniale (mai messo in discussione dai suoi esponenti) sia quello di indurre ad una costanza dei rapporti e a forme di responsabilità nei confronti della prole, assicurando ad essa anche (ed ovviamente il tutto nella dimensione del possibile e delle attitudini individuali) un processo educativo. Quello di rimedio alla concupiscenza (tesi tanto dei cristiani quanto dell’‘empio Mandeville’) e di cellula di stabilità e di trasmissione di valori e di cultura sono allora i suoi presupposti e ciò che lo caratterizzano come un istituto degno di essere garantito (e per certi versi incoraggiato).

Da allora molte cose son cambiate, ma non sembra che l’innegabile crisi dell’istituto abbia avuto benefici effetti sulla società, soprattutto se si considera l’aspetto della trasmissione dei valori e della conoscenza. Per molti, l’idea di una società in cui l’educazione dei figli sia affidata ad insegnanti, assistenti sociali, pedagoghi, televisione ed internet si configura come un incubo la cui realizzazione ha stretti legami con la trasformazione della famiglia. Per costoro, ovviamente, i Dico sarebbero una tappa importante in tale direzione.

Pur consapevoli della crisi della famiglia tradizionale, i liberali, in generale, non pensano quindi che tale crisi possa essere risolta incrementando e sperimentando nuove tipologie di legami familiari.

Alcuni di essi, quelli che possiamo definire i più estremisti, pensano anche che sarebbero da considerare negative, e quindi da abolire, tutte quelle disposizioni del diritto positivo che in qualche modo limitano la libertà individuale perché la vincolano ad obiettivi o a finalità sociali come quelle che pongono al primo posto della scala dei valori quelli connessi a concetti come bene comune, utilità sociale, giustizia sociale, etc. In questo caso l’istituto matrimoniale non sarebbe meno deprecabile dell’esistenza della tassazione (strumento per ora ritenuto indispensabile se non altro per avvicinarsi a quegli ideali etico-politici). Portato ai suoi estremi nel Libertarianism, il ‘liberale conseguente’ dovrebbe essere contrario tanto alla tassazione quanto all’esistenza di una singola modalità giuridica di ordinamento ‘matrimoniale’ e, prima ancora che di fronte alle unioni omossessuali, sicuramente si sentirebbe inorridito dall’esistenza di oneri pecuniari che gli derivano dal fatto di vivere in una società tanto complessa e in cui le normative fiscali sono tanto indecifrabili da obbligarlo a pagare una tassa (il commercialista, il Caf, e lo studio tributario) per assolvere al dovere di pagare le tasse.

Se quindi pensassimo che una società non abbia il diritto di porre dei limiti alle modalità di rapporti tra individui per il fatto che ne limitano i diritti e la libertà, non si capisce perché dovrebbe imporgli il dovere di pagare le tasse. La cosa personalmente, in quanto liberale che quei diritti naturali li prende sul serio nel loro insieme, mi andrebbe bene; anche molto. Ma dubito che un liberale come Ferrera sia disposto a seguirmi fino a questo punto. Da sempre il liberalismo, forse sbagliando, ha posto dei limiti all’esercizio della libertà individuale proprio perché a torto o a ragione convinto che un illimitato esercizio della libertà individuale si sarebbe risolto (per una serie di motivi che non possono essere analizzati ora) in un clima di diffusa incertezza sociale circa l’estensione dei diritti medesimi. Ciò che, in pratica, avrebbe finito per renderli tutti incerti.

Non è il caso di tornare su un qualcosa che è scontato come il dato di fatto che nel corso dei secoli l’istituto matrimoniale abbia avuto un’evoluzione e che questa non possa essere fermata. Ma quello matrimoniale è appunto un istituto a cui si accede liberamente, con vantaggi ed inconvenienti, e che chi non ci crede è libero di fare diversamente: di vivere con chi vuole senza sposarsi.

Il problema, semmai, è rappresentato dal vantaggio di creare altri istituti che, senza incrementare la libertà individuale, accrescano la complessità sociale e quindi l’incertezza. Non sono certamente soltanto i liberali, più o meno ‘classici’, o i Libertarians a pensare che i ‘costi di transazione’ aumentino in relazione al decrescere dei ‘vincoli informali’ e al crescere della complessità e comprensibilità di quelli ‘formali’.

Dal punto di vista dell’analisi giuridica è stato messo in luce che i Dico –i quali, senza prendere in considerazione il fine, dal punto di vista della tecnica giuridica appaiono un autentico obbrobrio– non aggiungono nulla alle libertà individuali di cui i cittadini italiani dispongono oggi, e che semplicemente creano nuovi problemi. Non a caso, avvocati, notai, assistenti sociali e consulenti matrimoniali sbavano all’idea che l’istituto possa essere varato. E questo, caro Ferrara, sta soltanto a significare che non è affatto detto che i margini di libertà individuali siano destinati ad aumentare ogni qual volta una legge aumenti (sia pure come conseguenza involontaria) la complessità sociale trasformando le aspettative in diritti e sanzionandoli legislativamente.

Non si tratta quindi di difendere ad oltranza l’unicità dell’istituto del matrimonio sostenendone la ‘naturalezza’ e l’immodificabilità, ma di prendere atto del fatto che se si aggiunge un istituto per realizzare diritti che sono scontati, si finisce inevitabilmente per accrescere la complessità sociale e per vincolare quegli stessi diritti all’osservanza di norme che, producendo ulteriori controversie, finiscono per renderli di difficile e costoso godimento.

Se di qualcosa un liberale sente il bisogno è di semplificare, non certo di complicare, i rapporti tra gli individui, di avere dei punti di riferimento certi (nel limite di ciò che è umanamente possibile). Per questo esistono dei liberali che ad un incremento della complessità dei rapporti giuridici tra individui sono contrari. I Dico non sono una soluzione a nulla, servono soltanto a produrre complessità ed incertezza. Trasformano un diritto quasi gratuito, come quello di vivere more uxorio con chi si vuole, in uno status costoso proprio perché dà vita a rapporti giuridici complessi per chi lo vive e per coloro i quali (figli, ex coniugi, parenti) hanno una qualche relazione con quanti dovessero decidere di vivere in tale regime ‘matrimoniale’.

A questo punto dovrebbero essere i loro fautori a chiedersi quali siano i vantaggi individuali e sociali della loro introduzione, e non certo i liberali a fornire ragioni per la loro opposizione.