Ecco spiegato perché l’economia italiana sta per collassare
27 Giugno 2016
di Satyajit Das
Ora che il movimento 5 stelle si è assicurato la carica di sindaco di Roma, il primo ministro italiano Matteo Renzi probabilmente ha capito cosa intendeva Benito Mussolini quando diceva «governare gli italiani non è impossibile, è semplicemente inutile». I tentativi di riforma di Renzi infatti non hanno fornito i risultati sperati.
Dal 2007 l’economia italiana si è contratta di circa il 10 per cento, mentre il Paese ha sopportato una recessione “triple dip” (recessione di lungo termine, NdT). La produzione è regredita ai livelli di oltre un decennio fa. La disoccupazione complessiva è di circa il 12-13 per cento, con una disoccupazione giovanile intorno al 40 per cento. Consumi e investimenti sono fiacchi.
Il danno è a lungo termine, con ben il 15 per cento della capacità industriale italiana che è andata distrutta, riducendo l’occupazione e il potenziale di crescita. Una volta il suo punto di forza, le piccole imprese dell’Italia si sono contratte a causa di vendite scarse, redditività in calo e mancanza di finanziamenti. L’Italia ha un avanzo delle partite correnti dell’1,9 per cento, invertendo un certo numero di anni di saldi negativi. La variazione riflette il deterioramento dell’economia italiana piuttosto che un cambiamento nella sua posizione commerciale.
I problemi del sistema bancario hanno aggravato la contrazione. Le banche italiane sono frenate da circa 150-200 miliardi di euro di crediti inesigibili o incerti, aumentando l’esposizione di un capitale insufficiente e delle riserve. A differenza dei competitori nel Regno Unito e negli Stati Uniti, le banche italiane non sono state capaci o in grado di affrontare il problema della qualità dei cespiti. L’esercizio economico più recente (dal glorioso nome ispirato ad Atlante) è sottofinanziato e mal concepito, non riuscendo a fare molto altro se non sostenere alcune banche più deboli a discapito delle imprese più solide.
Questo ha limitato la erogazione di credito all’economia. Le grandi aziende possono fare affidamento sui mercati di capitale per finanziarsi, ma questa opzione è meno disponibile per le imprese di piccole e medie dimensioni che sono cruciali per l’occupazione e l’attività economica. La mancanza di disponibilità del credito combinata con la distorsione della struttura industriale italiana limiterà qualsiasi forma di risanamento.
Il totale del debito della economia reale (governo, famiglie e imprese) è di circa il 259 per cento del Pil, in crescita del 55 per cento dal 2007. Questo dato sottostima le passività reali, in quanto ignora pensioni senza copertura e obbligazioni sanitarie. L’indebitamento delle famiglie è basso, rispetto ai concorrenti. La posizione patrimoniale netta sull’estero è -32 per cento del Pil, superiore alla Spagna (-92 per cento) e al Portogallo (-100 per cento).
Nonostante il suo impegno per la riforma fiscale, l’Italia sta gestendo un deficit di bilancio del 3 per cento. Il debito pubblico è di 2,4 triliardi di dollari e si avvicina al 140 per cento del Pil. Il governo paga in ritardo i fornitori, in un elaborato gioco delle tre carte per abbassare i livelli di debito complessivo dell’Italia e tranquillizzare la UE e gli investitori. Secondo le stime ci sono 160 miliardi di dollari in tasse non riscosse ogni anno, il terzo tasso più alto in Europa occidentale.
Sebbene vada ricordato il fattore della crisi del debito nella Eurozona, i problemi dell’Italia sono più strutturali, con l’economia che è cresciuta poco dopo l’introduzione della moneta unica nel 1999. Il mercato del lavoro – eredità del sistema di potere del Partito Comunista nel Dopoguerra – è rigido, con un alto costo del lavoro e molteplici ostacoli alla assunzione e al licenziamento dei lavoratori. Una politica di governo di lungo termine impone allo Stato di pagare i lavoratori licenziati fino all’80 per cento del loro salario normale, proprio mentre il loro datore di lavoro sta ristrutturando la propria azienda. Anche i miglioramenti della produttività vanno a rilento.
L’economia italiana è sempre più sbilanciata verso produttori di fascia alta, come ad esempio quelli dei beni di lusso e di produzioni anche avanzate, che beneficiano della domanda proveniente dai mercati emergenti. Altri settori, come ad esempio quello automobilistico, degli elettrodomestici e il mercato dei tessuti e dell’abbigliamento a basso costo hanno incontrato difficoltà a competere con i produttori che hanno sede nei mercati emergenti.
Il mercato degli elettrodomestici dimostra il declino in Italia. Nel 2007, l’Italia, una volta leader mondiale nel settore, produceva 24 milioni di elettrodomestici. Nel 2012, la produzione è scesa a 13 milioni; la produzione di lavatrici, lavastoviglie, frigoriferi e cucine è scesa del 52 per cento, poi del 59 per cento, del 55 per cento e del 75 per cento. I fabbricanti italiani hanno spostato la produzione in paesi a basso costo, con la conseguente grave perdita di posti di lavoro nel Paese. Questi sviluppi hanno aumentato il divario tra il Nord industriale e il Mezzogiorno – il termine che indica tradizionalmente le regioni meridionali dell’Italia – che compete con le economie emergenti in settori price-sensitive.
Ci sono altri problemi strutturali. Secondo gli studi della Banca Mondiale, l’Italia si posiziona al 65° posto tra 189 nazioni nella semplicità di fare impresa. Le infrastrutture, che risalgono al periodo immediatamente successivo alla Seconda Guerra mondiale, hanno bisogno di essere modernizzate e di colmare il ritardo con le altre principali economie. I costi energetici sono alti. L’Italia spende meno del 5 per cento del PIL per il settore dell’istruzione, a fronte di una media del 6,3 per cento della zona OCSE. Nella fascia di età compresa tra 25-34 anni il numero di chi completa gli studi superiori è del 21 per cento, a fronte di una media del 39 per cento della zona Ocse.
Lo smisurato settore pubblico e la burocrazia dell’Italia sono leggendarie. Tasse e altre entrate sono circa al 46 per cento del Pil. Secondo la Banca Mondiale, l’effettivo onere fiscale italiano è di circa il 65 per cento. La media europea è intorno al 41 per cento, con solo la Francia (64 per cento) e la Spagna (58 per cento) di portata comparabile. Svizzera e la Croazia, Paesi situati entrambi ai confini dell’Italia, hanno rispettabili tassi d’imposta del 29 per cento e 20 per cento, rispettivamente. Questo devia gli investimenti lontano dall’Italia. Ogni anno, vengono promulgate circa 100 nuove leggi che riguardano il fisco per le attività commerciali.
La dimensione degli stipendi pagati dal Governo non è paragonabile alla qualità dei servizi pubblici. L’esecuzione di un contratto dura circa tre anni rispetto alla media Ocse di 18 mesi. Le cause civili impiegano oltre otto anni per arrivare a termine, rispetto a meno di tre anni della Germania. Il mondo degli affari italiano non va molto meglio, dominato com’è da un gruppo di imprese monopolistiche o oligopoli ben intrecciate, e, per dirla con Alan Friedman, da dinastie e salotti che si “auto-compiacciono e che si perpetuano”, storicamente incentrati attorno a figure come Gianni Agnelli di Fiat e il fondatore di Mediobanca Enrico Cuccia. Il sistema delle partecipazioni incrociate nelle aziende assicura che le regolamentazioni esterne siano minime e che la resistenza al cambiamento sia elevata.
Transparency International colloca l’Italia al 69° posto su 175 Paesi nei livelli percepiti di corruzione pubblica, un dato paragonabile a Romania, Grecia e Bulgaria. Anche l’indicatore per il controllo della corruzione della Banca Mondiale e il World Economic Forum collocano l’Italia in modo negativo rispetto a indicatori legati all’etica e alla corruzione. Il Fondo monetario internazionale ritiene la corruzione un serio problema. Un certo numero di figure aziendali di spicco si trovano ad affrontare accuse di appropriazione indebita e procedimenti per violazione delle norme, mettendo in evidenza la portata del problema.
Il costo della corruzione, sotto forma di aumento dei costi con conseguenti perdite economiche, è stato stimato dalla Corte dei conti italiana in circa 60 miliardi di euro l’anno, il 4 per cento del PIL del paese. Questo determina anche degli incentivi economici che riducono la produzione potenziale, gli investimenti e, in ultima analisi, la crescita, senza la quale i problemi del debito italiano minacciano di sopraffare il Paese.
A dispetto del peso di questi problemi, il desiderio di cambiamento è limitato. Gli italiani sono quelli dei “pannicelli caldi”, del piccolo bricolage. Le riforme radicali sono per gli inglesi o per i tedeschi, non fanno per loro.
Traduzione di RS