Elezioni Germania: i tedeschi dicono ‘no’ a immigrazione e islamizzazione. Ma Merkel difende la sua linea

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Elezioni Germania: i tedeschi dicono ‘no’ a immigrazione e islamizzazione. Ma Merkel difende la sua linea

07 Settembre 2016

La stampa on line di tutto il mondo ha immediatamente, senza dover attendere il conteggio dei voti reali, titolato sulla sonora sconfitta della signora Merkel nel suo collegio elettorale, tanto chiari e affidabili sono apparsi sin da subito gli exit poll. Un pronostico poco azzardato ve l’avevamo proposto anche noi: sta succendo qualcosa che si muove in una direzione ben precisa. Eppure mai ci saremmo aspettati di vedere la Merkel, con gli occhi stanchi, concedersi ai cronisti per ripetere tre volte di ritenere “le decisioni dei mesi scorsi sulle politiche migratorie giuste“. Denunciando lei stessa, però, che il cuore del problema è tutto lì: la gestione degli immigrati. 

L’AfD ha conquistato il 20,8% dei consensi, entrando di forza nel Parlamento di Schwerin, la nona assemblea statale conquistata in nove elezioni consecutive. Tutti i partiti rappresentati al Landtag hanno pagato il loro caro contributo di seggi al partito di Frauke Petry, ma la sconfitta che più brucia è quella subita dalla Cdu. Il partito della Merkel è stato così superato dall’Alternative für Deutschland, quella che i giornaloni nostrani definiscono “l’ultradestra xenofoba”. Quasi come se nel collegio elettorale del Meclemburgo, nella “patria politica” della Merkel, fossero resuscitati Hitler e camerati vari (che peraltro, come insegnò tra gli altri Eric Voegelin, di destra certo non erano). E poco male se si tratta di un partito soprannominato, inizialmente, “dei professori”: espressione di quel ceto medio-alto della società tedesca che ha semplicemente trovato, in un problema reale per la Germania, la chiave di volta elettorale. Ancora una volta, l’esito di un voto democratico viene dannato con acrimonia solo perché non piace all’èlite (come quando il voto per la Brexit fu definito “impensabile” dai benpensanti), costrette a vedersi inghiottite dagli effetti collaterali del politicamente corretto. Perché se una cosa è certa, è che i tedeschi si sono schierati apertamente contro l’invasione dei immigrati, la radicalizzazione dell’islam sempre più imponente e dalla parte di un partito che tra i punti cardine ha il proposito di divieto di minareti e burqa

E la stampa internazionale non si è risparmiata nel mettere il dito nella piaga. Il “Telegraph” ieri ha scritto, “era chiaro che il partito di Angela Merkel avrebbe sofferto per via dello scontento degli elettori per la sua politica dei rifugiati”; Bloomberg, invece, la settimana scorsa aveva predetto che “la sconfitta nel suo stato natale, dall’Afd, si sarebbe rivelata un imbarazzo politico notevole per la Merkel, e probabilmente riaccenderà le lamentele circa le sue politiche sui rifugiati”. Il boccone amaro è tutto per Angela Merkel, insomma: era stata lei a lanciare, un anno fa, la politica della “porta aperta“, ed è oggi il suo partito a pagare.  Ma non erano scenari così imperscrutabili. E’ da tempo ormai che i tedeschi scalciano per una situazione che in qualche modo sono stati costretti a subire, il che non li esime, allo stesso tempo, però, da un atteggiamento di preoccupante passività.

Ne parlò, tempo fa, il quotidiano tedesco ‘Die Welt’ pubblicando il nuovo rapporto annuale del Consiglio di esperti delle Fondazioni tedesche in materia di integrazione e migrazione (SVR). Il documento, intitolato “Molti dei, uno stato”, denunciava quanto l’islam fosse ormai una parte importante della società tedesca: la migrazione di massa dei musulmani e il progressivo calo dei cristiani praticanti ha reso facile la crescita dei seguaci di Allah in Germania. E la cosa non è, e non sarà mai, semplicemente, un problema di religione cui intestare una nazione.

Lo aveva capito bene Heinz Buschkowsky. Il sindaco socialdemocratico del quartiere di Neukölln, ottavo e popolatissimo distretto di Berlino (quasi 325 mila abitanti), che più di un anno fa consegnava le sue dimissioni con dodici mesi d’anticipo (e trent’anni di attività politica alle spalle). “Neukölln, con il suo quarantuno percento di immigrati, non rappresenta un modello da prendere ad esempio: bande criminali arabe hanno il controllo di intere strade, studenti di quinta elementare che non sanno neanche parlare tedesco”, si lamentava. Ricordando come il suo quartiere fosse nella capitale ,e  non in un remota provincia del paese. Persino uno come lui, che della Spd ha scritto la storia, non riusciva (e non riesce!) a tollerare “la pigrizia mentale e il divieto di parola sul dibattito relativo all’integrazione” e che “davanti alle scuole – alcune delle quali sono frequentate da solo il venti per cento di tedeschi – gli islamisti distribuiscono volantini alle ragazze. Queste vengono esortate a non portare i pantaloni come gli uomini e a indossare esclusivamente abiti islamici che lasciano intravedere solo il viso e le mani”. 

Era ancora il 2012 quando in un libro denunciava il tramonto delle illusioni multiculturaliste, gli errori delle politiche d’integrazione portate avanti dalla Germania e metteva in guardia la sua gente sul rischio della diffusione dell’islamismo.  E la Merkel, nel frattempo, diceva al mondo intero che “l’islam appartiene alla Germania”. Ma evidentemente non considerava ancora un’emergenza la nascita di veri e propri ghetti, zone che sfuggono al controllo statale. Per qualcuno il fatto che la Germania abbia  perso il suo equilibrio, e che ora viva nella foga di recuperarlo, è l’ennesimo sintomo della sua annosa nevrosi. Quella patologia che la fa vivere nel timore di apparire intollerante ad una cultura estranea.  Il che rende il popolo tedesco vittima, anche, di quello stesso schema francese per cui si tende a negare che gli episodi sempre più frequenti di violenza e terrore siano riconducibili all’islam.

Questa tornata elettorale per adesso resta un episodio. Aspettiamo di metterla in fila insieme ai risultati delle prossime settimane in Germania e alle imminenti elezioni in Austria. Ma rappresenta, comunque, la prova dell’esigenza di reagire a quell’Eurabia che, forse, ha smesso di essere solo “un’emergenza su cui speculare” (come titolò Newsweek qualche anno fa). E quell’Europa che dipingeva, nel 2009, Bat Ye’or, la saggista naturalizzata britannica pioniera nello studio del Jihad, ora è la nostra realtà più terribile: “L’Eurabia è un nuovo ‘spazio della dhimmitudine‘ creato dai politici, dagli intellettuali e dai media europei, Eurabia è un’entità culturalmente ibrida, fondata sull’antioccidentalismo e sulla giudeofobia. I nostri multiculturalisti non ci danno le chiavi per conciliare i valori della sharia con quelli della laicità europea, i contenuti della Carta islamica dei diritti umani con quelli della Dichiarazione Universale, l’espandersi dell’imperialismo islamico e i principi di libertà e uguaglianza tra i popoli e tra i sessi. […]  L’Eurabia è un continente in balia della paura, del silenzio, della dissimulazione. […] Eurabia esiste laddove ci sono donne velate e le leggi della sharia sono applicate, quando l’ideologia islamica e antisionista fiorisce, dove le istituzioni democratiche non sono che il ricordo scarnificato del proprio passato”. E forse inizia a fare così paura, che il pubblico (pare!) desideri uno spartito nuovo.