Elezioni in Sudan, brogli in arrivo da parte di el Bashir
03 Aprile 2010
di Anna Bono
Il Sudan, uno dei maggiori produttori di petrolio d’Africa e duplice “punto di faglia” dove si scontrano da decenni mondo arabo e mondo africano, islam e cristianesimo, va alle urne l’11 aprile per eleggere il capo dello stato, il parlamento, i governatori e le assemblee locali nonché il presidente e l’assemblea legislativa dell’entità regionale semiautonoma del Sud.
Previste dagli accordi di pace che nel 2005 hanno concluso il lungo conflitto tra nord e sud scatenato dal processo di arabizzazione del paese avviato nel 1989 dal presidente Omar el Bashir, e al quale il sud cristiano ha opposto una disperata resistenza costata milioni di morti e di profughi, le imminenti elezioni generali dovrebbero costituire un sostanziale passo avanti verso una reale democratizzazione delle istituzioni politiche e preparare il terreno al cruciale appuntamento del 2011, quando le popolazioni del sud, sempre secondo quanto disposto dagli accordi di pace del 2005, potranno decidere se continuare a far parte del Sudan oppure staccarsene e dar vita a uno stato indipendente.
La posta in gioco è enorme. I rapporti di forza che verranno indicati dal voto e l’esito del successivo referendum popolare decideranno infatti a chi andrà il controllo dei giacimenti di petrolio dai quali dipende la recente ricchezza del Sudan e che sono situati nel centro sud, lontano dalla capitale, nelle regioni abitate in prevalenza dalle etnie di origine africana e di religione cristiana.
Lo scorso anno il censimento della popolazione, indispensabile per redigere le liste degli aventi diritto al voto, aveva generato una prima prova di forza tra il governo e i portavoce di numerose etnie, in particolare quelle meridionali, che avevano contestato i risultati sostenendo che le popolazioni del nord erano state volutamente sovrastimate per consentire i brogli con cui il governo si sarebbe in seguito aggiudicato l’esito elettorale.
Nei mesi successivi Khartoum ha quindi intensificato gli sforzi per raggiungere accordi con i leader dei movimenti antigovernativi ancora in armi in difesa delle popolazioni del Darfur di origine africana, marginalizzate e perseguitate dalle milizie arabe sostenute dalla capitale. Sono in corso proprio in questi giorni i colloqui per definire i dettagli del cessate il fuoco firmato il 23 febbraio a Doha, Qatar, da uno dei maggiori gruppi armati, il Jem, e da altri gruppi minori: il negoziato dovrebbe garantire l’inizio di un decisivo processo di pace, mettendo fine alla guerra scoppiata nel gennaio del 2003 che ha costretto un terzo della popolazione del Darfur a rifugiarsi nei paesi confinanti o comunque ad abbandonare case, raccolti e bestiame per cercare scampo alla violenza negli immensi campi per profughi allestiti dalla comunità internazionale.
Così el Bashir, malgrado gli si contrapponga una frastagliata ma consistente opposizione, si è preparato una vittoria che è diventata tanto più certa dopo che il 1° aprile il suo principale avversario, Yarsir Arman, candidato del Splm, il partito al potere nel Sud, si è ritirato dalla competizione. Arman sostiene di essere a conoscenza di brogli da parte del governo che decideranno del risultato finale. Inoltre secondo Arman in certe regioni, prima di tutto nel Darfur, non ci sono le condizioni perché la popolazione possa andare alle urne.
D’altro canto, altri leader dell’opposizione ritengono che in realtà l’Splm abbia deciso di lasciare campo libero a el Bashir in cambio di garanzie sullo svolgimento del referendum del prossimo anno. Perciò sono già quattro i partiti di minoranza che hanno annunciato il boicottaggio delle elezioni come atto di protesta per un voto il cui esito è ormai scontato. Di sicuro l’Splm si rende conto che l’eventualità di una secessione del Sud, accettata mal volentieri dal governo sudanese cinque anni fa, garba sempre meno alla leadership al potere e quindi intende difendere con qualunque mezzo questo articolo essenziale degli accordi di pace, in previsione di manovre da parte di Khartoum per impedire che il plebiscito popolare si svolga oppure per influenzarne i risultati al fine di non perdere l’accesso alla sua risorsa economica più preziosa.
È anche vero, come afferma Arman, che nelle condizioni attuali una parte della popolazione sudanese, e non soltanto in Darfur, avrà difficoltà effettive ad esercitare il proprio diritto di voto. Disorganizzazione, reali difficoltà logistiche, problemi procedurali, il controllo che el Bashir esercita sulla Commissione elettorale nazionale: questi e altri fattori sollevano più di un punto interrogativo tanto che alcune forze politiche avevano avanzato l’ipotesi di uno slittamento delle elezioni a novembre.
Vi è da aggiungere che almeno metà della popolazione sudanese non ha mai votato in vita sua e che – esausta, priva di esperienza politica, analfabeta o a mala pena scolarizzata – non è preparata a districarsi nelle procedure piuttosto complesse di queste elezioni multipartitiche, le prime dal 1986. Basti pensare che agli elettori del Nord verranno consegnate otto schede diverse e a quelli del Sud addirittura 12.