Emergenza rifiuti non solo sulla Terra, la “monnezza” invade anche lo Spazio
04 Aprile 2009
Superato il dramma della monnezza napoletana, un problema analogo ma di proporzioni planetarie si presenta nello spazio: tonnellate di rifiuti spaziali orbitano quotidianamente sulle nostre teste. E’ una monnezza che “non olet”, ma non per questo è meno preoccupante. Ma in questo caso, per risolvere il problema, la determinazione del Governo italiano non basterà.
Ogni tanto i razzi sparati in aria fanno un buco nell’acqua, come è accaduto a fine febbraio all’Orbiting Carbon Observatory lanciato a cura della NASA dalla base Vandenberg in California allo scopo di monitorare le emissioni terrestri di CO2 e finito invece, dopo pochi minuti dal lancio, nelle profondità dell’Oceano Antartico. Risultato: 225 milioni di euro buttati via.
Ma il più delle volte sono i razzi che entrano in orbita a determinare pericoli di collisioni con altri oggetti orbitanti, come è accaduto alla navicella russa Cosmos 2251, un vecchio rudere da anni fuori uso, schiantatosi a metà febbraio contro un satellite per comunicazioni della famiglia Iridium. E siccome nessun trattato internazionale obbliga un Paese a modificare, in caso di pericolo di collisione, l’orbita di un proprio oggetto volante, il risultato è stato non solo la perdita di altri, svariati milioni di euro ma anche un altro paio di migliaia di detriti spaziali in più che si muovono alla velocità di 18.000 miglia all’ora. Ognuno di essi ora si va ad aggiungere a tutti gli altri che già affollavano lo spazio costituendo un pericolo non tanto per chi sta sulla superficie terrestre (se i detriti vengono attirati dalla Terra, solitamente bruciano nell’atmosfera prima di raggiungere il suolo) quanto per altri satelliti artificiali.
Ormai lo spazio compreso fra le quote di 60 e 1.000 miglia dal suolo è talmente pieno di detriti che ben presto sarà impossibile utilizzarlo appieno. E il tempo di persistenza in orbita dipende dalla quota: mentre un corpo che orbita ad una quota di 150 miglia può essere attirato dalla Terra entro un paio di mesi, ad un’altezza di 500 miglia il detrito resterà in orbita per decenni, e a quote ancora superiori resterà sopra le nostre teste per secoli.
Talvolta, poi, i detriti vengono causati da impatti intenzionali. Come l’11 gennaio 2007, quando la Cina aveva abbattuto un proprio satellite mediante un missile lanciato da terra. In quell’occasione Pechino aveva negato le finalità militari dell’azione, sottolineando che “la Cina desidera un’utilizzazione pacifica dello spazio esterno e si oppone ad una corsa agli armamenti nello spazio”, affermazione che aveva attirato sulla Cina accuse di “ipocrisia” da parte americana, giapponese, sudcoreana e indiana.
O come il 21 febbraio 2008, quando gli USA abbatterono (con un missile SM3 partito dall’incrociatore “Lake Erie”) un proprio satellite artificiale militare (nome in codice USA 193) che minacciava di cadere al suolo. Ovviamente quel giorno fu la Cina ad accusare Washington di ipocrisia, mentre da parte americana la mossa fu definita “preventiva” allo scopo di impedire che finisse sulla terra il serbatoio del satellite, contenente una sostanza pericolosa: l’idrazina.
Il problema dei detriti spaziali è amplificato dall’assenza di una legislazione internazionale in merito. E’ pur vero che in ambito ONU sono stati adottati determinati protocolli che definiscono certe linee-guida per i Paesi che mettono oggetti spaziali in orbita. Secondo questi protocolli i Paesi sono invitati ad astenersi dal lancio di oggetti nello spazio, limitare il numero di detriti, agire in modo tale da “parcheggiare” i detriti in certe orbite situate alle quote meno pericolose oppure posizionarli a quote più basse, dove saranno destinati a deorbitare e pertanto ad autodistruggersi. Ma il guaio è che queste linee-guida non sono vincolanti: chi vuole osservarle le osserva, e chi non vuole osservarle non solo può farlo, ma può farlo senza incorrere in alcun tipo di sanzione.
Ci sono poi le “convenzioni a metà”, come quella sulle “registrazioni spaziali” gestita dall’ONU, che raccoglie la banca dati (anche qui i dati sono messi a disposizione dai Paesi su base volontaria) degli oggetti lanciati: Paese interessato, tipo del lancio, dati dell’orbita e scopo dell’operazione. Peccato che poi nessuno segua ciò che avviene una volta messo in orbita l’oggetto, e tantomeno l’andamento dei detriti una volta avvenute le collisioni.
Se l’ONU non ha le risorse per gestire il problema, la Superpotenza non se la passa molto meglio. Il Comando strategico USA ha sì la capacità tecnica di monitorizzare mediante telescopi terrestri, oltre ai 900 satelliti attualmente operativi, anche qualcosa come 18.000 oggetti volanti pericolosi (pezzi di fusoliere, antenne, pannelli, bulloni, frammenti di serbatoi, motori di razzi e chi più ne ha, più ne metta), ma non dispone delle risorse umane per segnalare a tutti gli interessati i pericoli di tutte le possibili collisioni, pertanto si limita ad emanare avvisi soltanto alle navicelle con equipaggi umani e nel caso di pericolo per i principali satelliti americani.
La “situational awareness” (consapevolezza della situazione), dunque, non è ottimale nemmeno per gli Americani, ma le cose sono destinate a migliorare dal mese di aprile, grazie al SBSS. Il mese prossimo, infatti, verrà lanciato un satellite da 425 milioni di dollari, lo “Space Based Surveillance System”, il primo di una costellazione di quattro satelliti che costeranno in tutto 3 miliardi di dollari e che, dallo spazio, non saranno condizionati dalle limitazioni terrestri dovute alla visibilità o alle condizioni meteo. Il sistema, prodotto dalla Boeing, potrà, nelle parole dei progettisti “spiare i satelliti spia, seguire tutto ciò che viene lanciato nello spazio, monitorizzare i detriti in tempo reale e osservare i fenomeni (naturali o artificiali) in grado di minacciare i satelliti americani”.
Americani, per l’appunto. E gli altri satelliti? E i detriti causati dal resto del mondo?
Per gestire il problema si potrebbe creare un consorzio formato dalle agenzie spaziali dei Paesi utilizzatori dello spazio, ma questo trova un limite nel fatto che certi Paesi (e forse tutti) non mettono volentieri a disposizione degli altri i dati relativi ai propri satelliti, soprattutto quelli con finalità militari.
Che fare, dunque? Ecco una proposta: inserire l’argomento della “monnezza spaziale” nell’agenda del G8 che si terrà alla Maddalena. Se gli Otto riusciranno a mettersi d’accordo sulla necessità di addivenire alla stesura di un codice internazionale di condotta vincolante che comporti anche sanzioni per i trasgressori, potranno andarne fieri. Dopotutto, sono stati proprio quegli otto Paesi a mettere in orbita la gran parte dei rifiuti spaziali.