Entra in vigore il Collegato lavoro e cambiano le regole per i licenziamenti
24 Novembre 2010
Entra oggi in vigore il Collegato lavoro, la legge n. 183 varata dal Parlamento il 19 ottobre scorso e pubblicata sulla gazzetta ufficiale del 9 novembre. Diverse le novità in materia di lavoro, pubblico e privato; tuttavia, il provvedimento è destinato a passare alla storia, e non a torto, per via delle modifiche apportate al processo del lavoro.
Sotto questo aspetto le novità più rilevanti, oltre alla famigerata “clausola compromissoria sull’arbitrato” che tanto ha fatto discutere (anche il Capo dello Stato), sono due: l’attribuzione del carattere facoltativo al “tentativo di conciliazione” e le nuove regole per impugnare i licenziamenti. Due novità su cui sono riposte le speranze per effetti positivi sul mercato del lavoro ed anche per uno sfollamento delle aule giudiziarie.
La prima novità consiste nella (ri)attribuzione del carattere facoltativo al tentativo di conciliazione. E’ un ritorno alle origini del processo del lavoro, ossia alla riforma del 1973 che lo estrapolò dalla branca del processo civile per farne una disciplina a sé. Fu in tale sede, infatti, che venne introdotto il tentativo di conciliazione come opzione facoltativa tra le parti in causa, per la ricerca di una soluzione negoziale (extragiudiziale) alle liti, cioè senza arrivare in Tribunale, per una più celere chiusura del contenzioso. Verso la fine del secolo scorso, il tentativo di conciliazione viene reso obbligatorio, cioè come atto propedeutico al ricorso al Giudice. In tal modo, il Legislatore intendeva favorire ulteriormente la strada extragiudiziale, al fine di liberare le aule dei Tribunali praticamente vicine al collasso sul finire degli anni Ottanta. Così non è stato e anzi, come tentativo obbligatorio, la conciliazione si è dimostrata più d’intralcio (di ritardo) che di sveltimento alla soluzione delle liti (il fatto che esistesse il tentativo obbligatorio di conciliazione costringeva ad attendere il decorso di un lasso di tempo di 60 giorni, prima di poter depositare il ricorso in Tribunale anche quando era chiara l’intenzione di adire direttamente la via giudiziale). E arriviamo ai giorni nostri.
Il Collegato lavoro, in vigore da oggi, ridà nuovamente il carattere facoltativo al tentativo di conciliazione. In altre parole, viene nuovamente rimessa alla liberà di scelta delle parti (lavoratore e datore di lavoro) di ogni rapporto di lavoro, sia pubblico che privato (quindi anche per le pubbliche amministrazioni), di decidere se tentare una soluzione extragiudiziale alla lite o se incanalarsi direttamente nella via giudiziaria. Peraltro viene prevista un’unica disciplina valida sia per il settore del lavoro privato che per quello pubblico, con ulteriore beneficio di semplificazione. Finora, infatti, l’esistenza di diverse regole tra i due settori (lavoro pubblico e privato) ha creato non pochi problemi operativi e applicativi.
Tutte qua le novità? No. Perché l’aspetto più innovativo della riforma del tentativo di conciliazione sembra essere un altro, che rappresenta un’assoluta novità: è la rilevanza attribuita al “comportamento delle parti” in sede extragiudiziale, quando una soluzione conciliativa sia stato tentata. Infatti, le nuove disposizioni sul processo del lavoro stabiliscono che, nei casi in cui non venga raggiunto un accordo tra le parti in sede extragiudiziale “senza adeguata motivazione”, il Giudice ne deve tenere conto in sede di giudizio. Cosa significa questo? Potrebbe significare che il comportamento delle parti, del lavoratore o del datore di lavoro, andrà a costituire un elemento di valutazione di cui il Giudice potrà tener conto nel momento in cui deve decidere ed emettere una sentenza. Per esempio la manifestazione di una ragionevole “poca disponibilità”, da parte del datore di lavoro o del lavoratore, a chiudere una lite in sede conciliativa potrà contribuire alla formazione del successivo giudizio del Giudice.
La seconda novità riguarda la procedura d’impugnazione dei licenziamenti. Le regole vigenti fino a ieri stabilivano che il lavoratore che voleva contestare un licenziamento doveva impugnarlo, a pena di decadenza, entro 60 giorni dalla ricezione della sua comunicazione. Fatto questo adempimento, il lavoratore aveva poi a disposizione 5 (lunghissimi) anni per depositare il ricorso in Tribunale e dare così avvio alla causa vera e propria. Anzi questo “tempo a disposizione” era addirittura “senza fine” nelle ipotesi in cui il lavoratore contestava la “nullità” del licenziamento (praticamente tutte le cause venivano fondate sulla “nullità” del licenziamento), perché non c’era termine finale, di decadenza, entro il quale il lavoratore aveva l’obbligo di depositare il ricorso in Tribunale e dare avvio alla causa (articolo 1422 del Codice civile: “Imprescrittibilità dell’azione di nullità”). Poteva farlo dopo un anno, dopo 5 anni oppure dopo 50 anni. Chiaramente, una disciplina del genere a super protezione dei lavoratori era, giocoforza, subìta dalle imprese come un vero e proprio regime. Una volta intimato il licenziamento, infatti, l’impresa non aveva mai la “certezza” di aver chiuso la partita con il lavoratore. Da un momento all’altro poteva ritrovarsi tra le mani l’invito di un Giudice a dimostrare le motivazioni della sua decisione presa un anno, 5 anni o addirittura 50 anni prima di chiudere un rapporto di lavoro.
Che cosa succede da oggi? Succede che, sebbene la procedura cambi veramente poco negli aspetti procedimentali, nella sostanza risultano rivoluzionati i tempi di chiusura delle controversie. In particolare, resta invariato che chi vuole contestare un licenziamento è tenuto a impugnarlo, pena la decadenza, entro 60 giorni dalla ricezione della sua intimazione (o delle motivazioni). Resta anche invariato, poi, che una volta fatto questo adempimento il lavoratore deve far seguire il deposito del ricorso in Tribunale, per dare avvio al processo vero e proprio. Ma – e qui sta la novità – il lavoratore non ha più a disposizione un termine indefinito, bensì 270 giorni per dare avvio alla causa. Se non lo fa, cioè una volta trascorsi i 270 giorni senza deposito del ricorso in Tribunale, il licenziamento diventa non più impugnabile, in nessun caso (neppure nei casi di nullità).
Gli effetti benefici delle nuove norme sono sufficientemente intuibili. Il principale aspetto positivo è rappresentato dalla «certezza del diritto». Fino a ieri, come detto, l’impresa che licenziava rischiava di ritrovarsi “appesa” per lungo tempo (o per sempre) agli esiti di una dichiarazione del lavoratore licenziato. Il quale, infatti, anche al solo fine di una rappresaglia per il torto d’essere stato lasciato a casa, poteva annunciare l’intenzione di impugnare il licenziamento (entro 60 giorni) ma, di fatto, non dare mai avvio effettivo alla causa lasciando così vivere l’impresa nel dubbio di ritrovarsi di colpo in un’aula di Tribunale. Oppure, il lavoratore poteva rinviare l’avvio della causa per anni, solamente al fine di trarne un maggiore profitto per l’accrescimento del risarcimento del danno che è misurato anche in proporzione al tempo trascorso. Tutto ciò, succedeva perché la regia era tutta nelle mani del lavoratore – e, peggio, del Sindacato – senza alcuna considerazione delle esigenze della controparte, nemmeno di quella minima garantista rappresentata, appunto, dalla “certezza” dei diritto. Questo si riproduceva tutto a danno delle imprese, costrette a tirare avanti nell’incertezza circa il “se” e il “quando” il lavoratore (o il Sindacato) avesse deciso di andare in aula di Tribunale a discutere del licenziamento intimato molti anni prima.