Entusiasmo, energia, voglia politica: la ricetta da “Big winner” di Santorum

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Entusiasmo, energia, voglia politica: la ricetta da “Big winner” di Santorum

08 Febbraio 2012

«Big winner»: è così che il bravo anchorman di Fox News Bret Baier, conduttore del programma America’s Election HQ, ha definito Rick Santorum, il candidato delle primarie Repubblicane, quando, all’1,30 ora della Costa Orientale, diventava definitiva, nonostante non tutti i seggi fossero ancora stati scrutinati, la notizia che l’ex senatore ha trionfato in Colorado, avendo contemporaneamente sbancato in Minnesota e in Missouri.

Il chairman del GOP dello Stato del Colorado, Ryan Call, aveva appena dato per ufficiale, in diretta televisiva al telefono da Denver, la grande vittoria di Santorum. Anche dopo il “pasticcio” dell’Iowa del 3 gennaio? Certo, al 100%; in Iowa la macchina del partito non era pronta e così si è ingarbugliata. In Colorado, invece, la struttura organizzativa è solidissima. Santorum ha vinto, no doubt: si può dirlo a scrutinio ancora in corso. Il che, sul piano dell’impatto emotivo, fa novanta. Ospite di Baier alla Fox, il politologo neoconservatore Charles Krauthammer, che è l’incarnazione stessa della freddezza calcolatrice, dice e ripete che quello di Santorum è un risultato strepitoso, con cui Romney dovrà fare i conti subito o sarà peggio per lui.

È stata davvero la notte di Santorum; qualcuno ironizza “la notte dei morti viventi”, visto che Santorum sembrava ormai fuori gioco dopo il voto del South Carolina (dove vinse Newt Gingrich alla grande) e della Florida (dove Romney è tornato a trionfare), e anche perché, appunto in Florida Santorum aveva voluto piantare baracca e burattini per correre a casa, al fianco della figlioletta di tre anni ‒ Bella, come il titolo di un grande film antiabortista, già sofferente per un disturbo genetico ‒, colpita improvvisamente da polmonite (è guarita, sta benone). Ma non è così. È possibile, anche se non scontatamente ancora del tutto probabile, che Romney sia alla fine il candidato presidenziale del GOP contro Barack Obama, ma a memoria d’uomo non si ricordano dati elettorali precedenti il cosiddetto “Super Tuesday” tanto litigati, e la cosa è un gran bene.

Nei caucus del Colorado Santorum ha trionfato con il 40,2% dei suffragi espressi (pari a 26.372 voti popolari) contro il 34,9% di Romney (22.875 voti), il 12,8 di Gingrich (8.394 voti) e l’11,8% di Ron Paul (7.713 voti).

Nei caucus del Minnesota Santorum ha trionfato con il 44,8% dei suffragi espressi (pari a 21.420 voti) contro il 27,2% di Paul (13.023 voti), il 16,9% di Romney (8.090 voti) e il 10,7% di Gingrich (5.128 voti); lo 0,3% (140 voti) è andato ad altri candidati il cui nome non compariva sulla scheda elettorale prestampata, ma ai quali gli elettori hanno comunque potuto dare la preferenza scrivendone di pugno il nome nell’apposito spazio, vale a dire i cosiddetti “write-in”.

Nelle primarie del Missouri Santorum ha trionfato con il 55,2% dei suffragi espressi (pari a 138.957 voti) contro il 25,3% di Romney (63.826 voti), il 12,2% di Paul (30.641 voti) e il resto dei voti suddivisi in percentuali minime fra candidati già ritiratisi dalla competizione, ma i cui nomi comparivano ancora sulle schede elettorali prestampate. Nel Missouri, del resto, il nome di Gingrich non compariva sulla scheda elettorale per non essersi qualificato in tempo durante la campagna elettorale che l’anno scorso ha preparato il ballottaggio, cioè non era candidato.

Il successo di Santorum è insomma stato nettissimo. Ha vinto in tre Stati su tre. In due casi (Minnesota e Missouri) ha ottenuto percentuali da record (personale e assoluto), staccando di gran lunga tutti gli altri avversari. E nel terzo caso, per certi versi quello più importante, il Colorado, ha vinto egregiamente. Dopo un avvio vorticoso che in Colorado lo aveva dato subito in testa con percentuali davvero da capogiro su Romney, dopo che Romney lo aveva riagguantato e poi superato allorché erano giunti i risultati degli scrutini dei voti espressi nelle grandi città di quello Stato, Santorum è riuscito comunque a spuntarla con un margine importantissimo (per lui, per il tipo di gara che si sta svolgendo quest’anno nelle primarie Repubblicane e pure in assoluto): più di 5 punti percentuali.

Romney, invece, l’“eterno favorito”, ha perso seccamente in tutti e tre i casi. Nel Minnesota è arrivato terzo, dietro a Paul (staccato da Santorum di 17 punti percentuali) il quale lo ha staccato di una decina di punti percentuali: ovvero, in quello Stato, tra Santorum primo e Romney terzo ci sono più di 27 punti percentuali. Lo iato che lo separa da Santorum in Missouri è di circa 30 punti percentuali: ovvero 5 punti sotto la metà della percentuale conquistata da Santorum. E quella della Colorado è tutt’altro che una consolante sconfitta di misura. Sono vantaggi, quelli riportati da Santorum, che polverizzano tutti quelli precedentemente ottenuti da Romney sui suoi tallonatori, negli Stati, ovviamente, dove Romney ha vinto.

Oggi come oggi, Santorum è insomma in testa nel conto totale degli Stati vinti, 4 (Iowa, Colorado, Minnesota e Missouri); seguono Romney con 3 (New Hampshire, Florida e Nevada) e Gingrich (South Carolina). Certo, il conto vero da fare è quello relativo ai delegati ottenuti per la Convenzione nazionale del Partito Repubblicano che a fine agosto, a Tampa, in Florida, designerà il vincitore della candidatura presidenziale contro Obama. Ma per avere quel conto in tutti i suoi dettagli occorre tempo, soprattutto relativamente agli Stati che svolgono i caucus (il 7 febbraio erano per esempio Colorado e Minnesota) e non le primarie, giacché i caucus assegnano i delegati indirettamente attraverso i diversi livelli della rappresentanza locale del partito, oltre a farlo, in vari casi, con legge proporzionale. Ebbene, quest’anno il tempo lavora dalla parte dei candidati anti-Romney, adesso in specie dalla parte di Santorum.

Le manciate di delegati ottenuti negli Stati in cui si svolgono i caucus (e non le primarie), magari per di più assegnati con criterio proporzionale, non possono alla fine fare la differenza rispetto a quelli conquistati negli Stati che di delegati ne esprimono davvero molti, magari assegnandoli in primarie che seguono il criterio maggioritario: ma il contrario esatto avverrebbe alla fine, tra diversi mesi, qualora le differenze nel conto generale dei delegati ottenuti dai vari candidati alla vigilia della conclusione della gara dovessero essere risicate, persino sul filo di lana. A quel punto, gli Stati dove si svolgono i caucus proporzionali, snobbati quando il numero di delegati totalizzato dai diversi candidati in Stati dove le primarie li assegnano immediatamente e cristallinamente con il criterio maggioritario, diventerebbero decisivi. E i conteggi laboriosi e lunghi che si effettuano negli Stati che svolgono caucucs proporzionali tornerebbero “in prima pagina”.

Tutto questo non conterebbe peraltro alcunché se Romney avesse già ora staccato alla grande i contendenti; ma così non è ancora, almeno non in assoluto. Il vantaggio che egli ora possiede nel conto totale dei delegati è ampio, certo, ma (per il ragionamento sopra fatto) eventualmente relativo: alcuni delegati debbono infatti ancora essere assegnati a lui o ad altri con certezza (appunto dopo il detto lavorio interno alle sezioni locali del GOP); il che non cambia nulla se Romney continuerà a racimolarne in futuro tantissimi, ma che invece potrà fare la differenza – o comunque influire parecchio – se i suoi sfidanti continueranno a rastrellarne a propria volta numeri sufficienti a metterlo un po’ in ambasce, o comunque tali da ricaricare quelli guadagnati negli Stati dei caucus proporzionali di significati ultimamente decisivi.

A lungo termine, i successi elettorali degli anti-Romney, di Gingrich prima e ora di Santroum, hanno questo significato. E, visto che si moltiplicano, ne rendono ogni giorno più forte la determinazione ad andare avanti. Per essi, infatti, le sconfitte cocenti possono pure non contare, e in assoluto bruciare meno di quelle subite dal “favorito” Romney.

Gingrich sembrava elettoralmente defunto prima del voto in South Carolina, ma in quello Stato ha saputo ribaltare il tavolo. Prima del voto in Iowa Santorum appariva ancora più “morto” e invece ha saputo prima rimontare sull’avversario piazzandosi alle sue spalle a soli 7 voti di distanza, poi addirittura batterlo superandolo di 34, cosa che sul piano (se non altro) dell’immagine a Romney è costata parecchio. In New Hampshire Santorum è di nuovo apparso elettoralmente defunto, e così pure in South Carolina, in Florida e in Nevada: ma oggi la sua stella splende forte in cielo, mentre il già “morto” e già “risorto” Gingrich torna a sembrare sconfitto “per sempre”.

Insomma, le sorprese non sono mancate in questi primi 8 Stati in cui si sono svolte le primarie: e così numerose non se ne ricordano in un lasso di tempo tante breve, soprattutto in questa fase delle primarie stesse. Significa dunque che non sono affatto finite.

Gingrich aveva “predetto” il proprio successo in South Carolina, aveva proferito monosillabi di circostanza e di autodifesa preventiva sull’esito della Florida, e aveva predetto la vittoria di Romney in Nevada. Santorum aveva previsto che in Florida e ancora più in Nevada non gli sarebbe andata benissimo (anche se forse si attendeva qualcosa di più dal South Carolina), ma aveva promesso grandi cose per la terna del 7 febbraio. Sono tutti dei maghi i candidati del GOP? Niente affatto.

Il segreto dei loro vaticini azzeccati è classicamente di Pulcinella. Gingrich conosce bene il denaro di cui dispone per battersi in primarie tanto costose quanto le sono quelle statunitensi. E sapeva bene anche come interpretare la variante mormone a favore di Romney in Nevada. Dal canto proprio, Santorum sa bene pure lui di quanti denari può disporre, pochi: quindi procura di usarli bene.

Nel suo trionfo in tre Stati su tre il 7 febbraio tutti i commentatori hanno visto la medesima cosa: la capacità dell’ex senatore della Pennsylvania di marcare il territorio, di scendere tra la gente, di guadagnarsi i voti uno a uno incontrando il pubblico, titillando i convinti di vecchia data, conquistando i nuovi e gli indecisi. Una strategia che paga sempre, negli Stati Uniti di più. Basta ripensare a cosa fece, grazie a Karl Rove, George W. Bush jr. per le elezioni presidenziali del 2004 e come benissimo lo ha saputo imitare Obama per le elezioni del 2008, quando, da parvenu sconosciuto che era, è assurto a star nazionale giocando sapientemente il porta-a-porta.

Ecco, a Romney questa capacità manca. Gioca le sue danarosissime campagne elettorali assai diversamente: più “istituzionalmente”, persino in maniera impettita. Chi sa imitare la strategia di Santorum sono Gingrich e Paul, che infatti fanno bene (Gingrich fa elettoralmente bene spesso; Paul lo fa, nonostante tutto, sempre).

La strategia di Santorum, imitata bene da Gingrich, spiega infatti perché Romney ha perso in South Carolina e in Minnesota nonostante gli endorsement importanti pronunciati a suo favore da Nikki Haley e da Tim Pawlenty, rispettivamente governatrice del South Carolina ed ex governatore del Minnesota: gente, cioè, che fa breccia facile tra i conservatori, che è amata dal popolo dei “Tea Party” e che però non è riuscita nemmeno così a far consegnare la palma del vincitore a Romney. Anzitutto perché i conservatori e i “Tea Party” hanno in quei frangenti giudicato i loro beniamini Haley e Pawlenty troppo schierati con quell’establishment di partito pro-Romney che detestano, quindi perché di ciò Gingrich prima e Santorum dopo hanno saputo approfittare. Gingrich e Santorum vengono infatti entrambi, seppur a titolo diverso e in modi differenti, dal “movimento” conservatore, e pure (il secondo da poco, il primo da sempre) dal milieu cattolico-conservatore: di quei mondi conoscono tutto, pregi e difetti, e sanno farsene carico. Se continuano così, possono dare vero filo da torcere a Romney, la cui strategia di “proiettare la propria inevitabilità” (come ha detto bene Baier a Fox News commentando la tripletta secca di Santorum) può segnare il passo.

Il 7 febbraio lo dimostra benissimo. Il voto del Missouri era solo consultivo, non ha assegnato alcun delegato e tutto è rimandato al 17 marzo quando quello Stato celebrerà un “caucus modificato” che stavolta ne assegnerà (ribadisco: negli Stati Uniti una ne pensano e cento ne fanno). Eppure ha chiamato a raccolta la passione a votare nonostante lì il voto “non contasse nulla”. Santorum ha stracciato tutti, Romney per primo. E l’assenza di Gingrich dalla scheda elettorale ha fatto sì che Santorum si prendesse tutto il voto conservatore disponibile, pure quello di Gingrich. In Minnesota altro bagno di folla. E in Colorado pure.

Santorum ha saputo cioè dare entusiasmo, energia, voglia politica. Questo è ciò che i conservatori si attendono da un candidato che chiede loro il mandato per battere il progressismo.

Il 7 febbraio ricorda infine un’altra grande verità, forse la maggiore di tutte. La “provincia” americana sceglie i conservatori, i grandi centri urbani premiano i “moderati” quando non i liberal. Il Midwest (Iowa, Colorado, Minnesota, Missouri) e il Sud (South Carolina) sposano i Repubblicani conservatori; il New England più secolarizzato e “middle-of-the road” sceglie i Romney (New Hampshire); il Nevada è “provincia” ma ha dinamiche particolari, che con un mormone in lizza diventano particolarissime a suo vantaggio; e la Florida è un fifty-fifty dove i soldi contano molto e quindi premiano personale politico a torto o a ragione percepito come “ricco che favorisce i ricchi”. Il Colorado?

Si divide tra conservatori schietti e liberal pure. Boulder, cittadina universitaria, è per esempio un centro storico del New Age mondiale. Però fuori da quel recinto “ci sono i cow-boy”… Il vantaggio di Santorum (palpabile per buona parte dello spoglio elettorale) nelle contee “periferiche” è stato immediato appena aperte le urne; Romney è tornato lievemente in testa quando sono giunti i risultati delle contee che ospitano le città; ma alla fine Santorum ha vinto spalmando il proprio voto un po’ su tutto il territorio dello Stato (come fece in Iowa) e sbaragliando gli avversari soprattutto in “periferia”. Nelle primarie repubblicane del 2008 Romney ‒ che era sì un Romney diverso (dice che ha imparato a farsi conservatore), però…‒ ottenne il 60,1 % (pari a 42.218 voti) contro il 18,39% (12.918 voti) di John McCain, poi candidato presidenziale (sconfitto) del GOP contro Obama. Mentre Romney si è cioè mangiato tutto in “provincia”, da quelle parti (che contano ancora diversi quartieri) Santorum serra le file dell’esercito conservatore, guardando avanti.

Marco Respinti è presidente del Columbia Institute, direttore del Centro Studi Russell Kirk e autore di L’ora dei “Tea Party”. Diario di una rivolta americana.