Erri de Luca ci racconta il nazismo e la tragica storia di un passato che non passa

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Erri de Luca ci racconta il nazismo e la tragica storia di un passato che non passa

09 Settembre 2012

Le tragiche e scellerate storie dei criminali di guerra sono state spesso al centro del panorama editoriale più o meno recente: il momento forse più rappresentativo di questa presenza è senz’altro il resoconto che nel 1961 Hannah Arendt, seguendo il processo ad Adolf Eichmann, ha pubblicato sul “New Yorker” e che due anni dopo, nel maggio del 1963, è stato ripubblicato in veste autonoma con il titolo “La banalità del male”, divenendo un classico della cultura filosofica e politica occidentale. A più di mezzo secolo di distanza, nei mesi scorsi è apparso un romanzo, il cui autore è Erri De Luca, che, malgrado la diversità di toni, di prospettive e di finalità, induce a ripensare e ridiscutere il classico della Arendt.

“Il torto del soldato”, questo il titolo del romanzo, dipinge con una levità quasi spietata la torbida e fluttuante esistenza di uno dei tanti criminali di guerra che la nostra storia ha conosciuto, a partire dal racconto della figlia, costretta a convivere con la intollerabile presenza di una menzogna, legata alla identità del padre – che per anni riesce a nascondersi sotto altre generalità – e, di conseguenza, alla sua stessa dimensione di donna, mai del tutto libera e certamente non responsabile del vissuto di dolore e di morte che ha visto protagonista suo padre. Un uomo che, consapevole della brutalità e della mostruosità dei gesti di cui è stato artefice, continua, a distanza di anni e sempre nascondendo la propria identità, la sua folle fuga dalla giustizia che continuamente sfida, ma che, in realtà, non teme, respingendo infatti, più che l’arresto, “l’idea del processo”, l’idea, cioè che un soldato possa essere giudicato da un tribunale civile.

“Non mi prenderanno vivo. Ne hanno catturati mille di noi, ma non farò la fine di una foglia d’autunno che si arrende”. Quella resa implicherebbe il tradimento di una prospettiva di vita in cui egli ha creduto e in cui, spietatamente e incomprensibilmente, continua a credere. Prospettiva che De Luca esprime attraverso un tessuto simbolico fittissimo e, come sempre, ben argomentato: il “bisogno dell’uniforme addosso” che domina l’esistenza dell’uomo, anche durante la sua seconda vita nascosta; “la precauzione di parlare a voce stretta, senza timbro”, perché molto spesso è anche la voce a svelare la nostra identità; la continua tensione nello sguardo, sempre attento a individuare nemici pronti a ricordargli il suo destino di vinto, giacché “il torto del soldato è la sconfitta. La vittoria giustifica tutto. Gli Alleati hanno commesso contro la Germania crimini di guerra assolti dal trionfo”.

La sua coscienza comunque non è affatto dilaniata, non avverte minimamente la colpa o la responsabilità di quel destino di ferocia e di morte a cui ha condannato le sue vittime; non sente finanche la responsabilità di una eredità esistenziale deviata e distorta che consegna alla figlia, testimone, suo malgrado, di tanta ferocia, dalla quale disperatamente prenderà le distanze nella maniera più terribile: scegliendo un destino di sterilità, per non consegnare a un altro essere umano un futuro, anche biologico, di potenziale colpa e di spietata barbarie.

Eppure, malgrado ciò, dalle pieghe del racconto emerge un elemento quasi inaspettato: l’”ossessione” per la kabbalà ebraica che a un certo momento inizia a dominare l’esistenza nascosta dell’uomo, indizio preciso della sua volontà di comprendere finalmente e una volta per tutte la vera natura di un bersaglio fino ad allora colpito in maniera ostinata e superficiale. Quel criminale, soldato orgoglioso della propria missione di morte, “voleva spiegarsi il fallimento del nazismo: si era applicato a distruggere un popolo, si era accanito sui corpi, invece di concentrarsi sul centro del bersaglio”. Per lui era giunto il momento della persuasione “dell’errore di una persecuzione superficiale” e la kabbalà rappresentava la dimostrazione di un destino “predisposto a compiersi”. In questo, la profonda e angosciante tragicità di questa esistenza spietata, raccolta attorno a una lucida e sempre consapevole appartenenza alle logiche delle persecuzioni naziste.

Se è vero, come ha scritto Fernando Pessoa, che si legge “perché la vita non ci basta”, si può affermare che, per la stessa ragione, sovente si è spinti anche a scrivere: a questa ‘eccedenza’ della vita, come dimostra questa ennesima sua prova, si può ricondurre l’esperienza letteraria di De Luca, il quale, oltrepassando con questo breve racconto l’ambito di sollecitazioni a cui ha abituato i suoi lettori, ha dimostrato la forte attualità di una pagina della nostra storia che nessuno di noi avrebbe mai voluto leggere, ma che tragicamente continua a chiederci di essere indagata e rivissuta.

Erri De Luca, Il torto del soldato, Feltrinelli, 2012.