
Esiste un ‘fil rouge’ nel Pd che lega Tedesco e Cozzolino

28 Febbraio 2011
di M.A.
Esiste un filo rosso che accomuna quanto sta accadendo nel Pd in Campania e in Puglia e che risale alle scelte fatte dai Democratici in occasione delle scorse elezioni europee, sotto la guida di Dario Franceschini. Nel ricordo di chi ha seguito gli eventi, la ricostruzione del puzzle delle candidature è molto semplice. Vediamo.
La vicenda della Sanitopoli pugliese era già esplosa e l’urgenza di trovare una copertura adeguata per il potente assessore della giunta Vendola, Alberto Tedesco, era diventata una necessità. Primo dei non eletti al Senato, gli bastava la rinuncia di uno dei senatori eletti in Puglia per approdare a Palazzo Madama e godere dell’immunità parlamentare che lo mettesse al riparo dall’indagine in corso. I vertici del Pd individuarono la soluzione nella candidatura all’Europarlamento dell’allora senatore Paolo De Castro, al quale venne offerto il posto da capolista. Conosciuto per le sue qualità accademiche, ma non certo per essere una macchina da voti adatta ad una competizione come quella europea, dove sono necessarie oltre 100 mila preferenze per essere eletti, il professore prodiano, già ministro delle politiche agricole nei governi D’Alema, pose due condizioni vincolanti al suo partito per accettare: la presidenza della Commissione Agricoltura dell’UE e il pieno sostegno di tutto il Pd meridionale. Per l’esaudimento della prima richiesta si spese D’Alema in persona con i vertici dei Socialisti Europei, ottenendo ampie rassicurazioni (patto che è stato poi mantenuto). Per la seconda, invece, garantirono i grandi elettori delle regioni meridionali, ossia i presidenti di Regione a guida centrosinistra allora in carica: Bassolino in Campania, De Filippo in Basilicata e Loiero in Calabria.
A loro volta, i governatori barattarono questo impegno con la richiesta di partecipazione alla composizione della lista ed il superamento di qualsiasi veto sui nomi da loro proposti. De Filippo era interessato alla riconferma dell’eurodeputato uscente Gianni Pittella, suo pericoloso competitor interno per la leadership del partito in Basilicata. Loiero puntò tutto su Mario Pirillo , assessore della sua giunta, campione del cambio di casacca (ex Ccd, Cdu, Udeur e Margherita). Bassolino, invece, costruì la candidatura del suo delfino, Andrea Cozzolino, ed utilizzò le Europee come un banco di prova per verificare la consistenza del suo consenso dopo lo scandalo rifiuti e l’umiliazione veltroniana del 2008. Una sfida vera e propria lanciata al suo partito.
Anche in questa occasione, il destino di Cozzolino si incrociò con quello di Umberto Ranieri. Quest’ultimo, nominato responsabile per la realizzazione della liste al Meridione, era il capolista in pectore del Pd. Esautorato del suo ruolo, venne invitato a fare un passo indietro in favore di De Castro, con la promessa di una candidatura a sindaco di Napoli per le amministrative del 2011.
Per riuscire nel suo disegno, Bassolino doveva scongiurare il rischio di una competizione interna nella sua Regione. Di fronte alla candidatura del potente assessore alla Sanità della sua giunta, Angelo Montemarano, e del consigliere proveniente dalla Margherita, Pasquale Sommese, due campioni delle preferenze, il governatore mise in atto un’operazione scientifica per svuotarli di ogni possibilità di esercizio del potere. Alla vigilia delle elezioni il governatore revocò Montemarano dalla guida del suo assessorato, poiché riteneva l’esercizio del suo ruolo incompatibile con la candidatura al Parlamento Europeo. Diede quindi seguito ad un rimpasto del suo esecutivo, richiamando suoi storici collaboratori. L’iniziativa limitò fortemente le ambizioni dell’emergente Sommese, in odore di promozione, che apostrofò con durezza l’iniziativa di Bassolino, giungendo a definire la nuova giunta una “simpatica comitiva che ignora i partiti e mortifica i territori”.
In un tale contesto, tuttavia, si evidenziò il doppiopesismo tipico di una certa cultura politica. La regola dell’incompatibilità sancita per Montemarano non valse per Cozzolino, che si ritrovò a condurre una campagna elettorale in discesa, alla guida dell’importante assessorato alle Attività produttive ed Agricoltura della Regione Campania. Di fronte a questa situazione, nessuna voce di sdegno si levò dal Pd. Un partito silente e connivente assistette alla mortificazione delle proprie classi dirigenti, nella sola speranza che queste scelte potessero limitare i danni di una sconfitta annunciata.
Il risultato fu scontato. La graduatoria del Pd nel Meridione recitava chiaro. Cozzolino risultò essere il primo eletto con oltre 136 mila voti, superando di poche centinaia l’uscente Gianni Pittella. Paolo De Castro, che avrebbe dovuto primeggiare in preferenze, si fermò a 111 mila, distanziando di appena mille voti Mario Pirillo. I quattro eletti del Pd saranno loro e la quadra definita a tavolino alla vigilia delle elezioni venne ampiamente rispettata. E Bassolino poté rivendicare con orgoglio il ruolo di azionista di maggioranza del Pd nel Meridione, grazie al risultato ottenuto dal suo prescelto.
In quelle elezioni, il Pd andò alla disperata ricerca di una figura-simbolo da candidare nelle proprie liste e la scelta ricadde sulla giornalista anticamorra Rosaria Capacchione. Senza il sostegno del partito, come lei denuncerà in seguito, ottenne il lusinghiero risultato di 73mila preferenze, che a nulla serviranno però per essere eletta. A differenza di quanto storicamente fatto dal Pci in altri fasi della vita politica nazionale, dove la possibilità di ospitare nelle proprie liste e far eleggere un De Giovanni o uno Spinelli era motivo di orgoglio e di diversità per i partiti di sinistra, oggi un Tedesco, un Pirillo o un Cozzolino contano più del valore dell’elezione di una Capacchione.
Queste vicende ci proiettano alla quotidianità. Sono trascorsi appena due anni, ma i protagonisti sono sempre gli stessi. Il bubbone Tedesco è esploso, mentre Cozzolino e Ranieri si sono ritrovati nuovamente a competere sul piano politico, l’uno con la forza dei voti, l’altro delle idee. Sappiamo tutti come è andata a finire.
E nell’impasse generato dal pasticcio delle primarie, l’unica via d’uscita possibile secondo Bersani è il canonico ricorso ad un salvifico esponente della società civile. Raffaele Cantone ha rappresentato per giorni l’unica speranza a cui aggrapparsi per poter uscire da una situazione irrimediabile. Il magistrato ha tenuto ferma la sua posizione ribadendo la sua indisponibilità a voler rappresentare un’ancora di salvataggio per questo centrosinistra. In fondo, era stato chiaro e netto già lo scorso novembre quando, in una lettera a Il Mattino, scrisse: “La ragione vera è che non sono tagliato per questo ruolo; mi riconosco un’intransigenza che mi rende difficile anche solo l’idea del compromesso (parola in sé non certo soltanto disdicevole) e non ritengo di avere le doti del demiurgo, capace di risolvere gli enormi problemi di questa città. Ed inoltre non ho alcuna esperienza nella gestione amministrativa di una complessa macchina come quella del Comune di Napoli (ho sempre e solo fatto il magistrato!) ed ho scarsissima (o meglio nessuna) conoscenza del mondo della politica cittadina e regionale”. Parole scritte in tempi non sospetti e che non lasciano spazio ad interpretazioni. Piuttosto, queste poche righe rappresentano una conferma dell’inadeguatezza con la quale Bersani ha tentato di affrontare la spinosa vicenda napoletana.
Trattata sempre con fastidio e disprezzo dai vertici nazionali del Pd per le sue vicende ma non per i suoi voti, ai quali nessuno ha dimostrato di voler rinunciare, la Campania è un nodo che il segretario del Pd non ha saputo sciogliere, rinunciando a fare i conti con il bassolinismo imperante in questa Regione. Una contraddizione emersa con tutta la sua violenza in occasione delle primarie. Di fronte all’autorevole candidatura di Umberto Ranieri, sponsorizzata dal presidente della Repubblica, Bersani ha dimostrato un’incapacità ad esercitare la propria leadership, rinunciando ad un’opera di moral suasion su Cozzolino per invitarlo a desistere dalla competizione. Il quadro che ne emerge è quello di un Bersani ostaggio dei bassoliniani e dei loro pacchetti di voti, che si è fatto sfuggire completamente la situazione di mano, oramai fuori controllo.
Mentre a Torino si festeggia per il risultato di Fassino ed il regolare andamento delle primarie, a Napoli, a distanza di circa un mese, ancora non si conosce il nome del vincitore e le richieste di chiarimenti degli avversari di Cozzolino sono state insabbiate. Nemmeno nelle elezioni in Afghanistan è successo tanto. Non è difficile, a questo punto, comprendere le ragioni per le quali una persona di grande equilibrio e spessore come Cantone abbia ribadito un rifiuto netto alla sua candidatura. La foglia di fico della società civile questa volta non ha funzionato. Tuttavia, il Pd ha dimostrato la sua debolezza, deresponsabilizzandosi del proprio compito e rinunciando ad esprimere una propria candidatura per Napoli. Una chiara manifestazione della mancanza di fiducia nei confronti della propria classe dirigente. A questo punto, la domanda sorge spontanea: perché dovrebbero averne i cittadini napoletani?