Esiste un filo conduttore che dal nazismo porta dritto dritto al ’68
14 Dicembre 2008
di Vito Punzi
All’inizio di quest’anno quarantennale c’aveva già pensato un ex di lusso, Götz Aly, stimato giornalista e storico del nazismo, a celebrare il Sessantotto tedesco con una provocazione dura, molto dura. Con il suo libro Unser Kampf (La nostra lotta), richiamandosi espressamente al Mein Kampf hitleriano, Aly ha tentato di dimostrare “dall’interno” come i protagonisti di quella rivolta, figli della generazione che aveva portato Hitler al potere, abbiano dato vita nella Germania Federale (in Italia non è stato molto diverso) ad un movimento solo apparentemente antiautoritario. In realtà, secondo Aly, quei giovani si scagliarono contro la generazione che fece il ’33 facendo uso della stessa energia distruttiva, finendo con l’usare la stessa violenza totalitaria (il terrorismo della Rote Armée Fraktion).
Oltre all’uso della violenza, lo storico ha cercato di dimostrare come lo stesso retroterra culturale, tra figli sessantottini e padri nazisti, non fosse così diverso: lo stesso utopismo sociale, la stessa aspirazione a creare un Uomo Nuovo, la stessa assenza di predisposizione al pragmatismo e al compromesso, la stessa posizione sostanzialmente antiborghese. Inoltre, anche i giovani nazionalsocialisti, almeno nelle loro posizioni iniziali, erano altrettanto antiautoritari e tesi a spezzare il dominio dei vecchi, con l’obiettivo di portare i giovani al potere (si dia un’occhiata alla giovane età di buona parte dei gerarchi andati al potere con Hitler nel 1933).
A dare ancor più spessore alla provocazione lanciata da Aly c’ha pensato il giovane studioso Leonhard Landois con il libro "Konterrevolution von links. Das Staats- und Gesellschaftsverständnis der “68er” und dessen Quellen bei Carl Schmitt" (Controrivoluzione di sinistra. L’idea di Stato e di società nei sessantottini e le relative fonti in Carl Schmitt, Nomos Verlagsgesellschaft, Baden Baden 2008, p. 299). Va detto subito che il lavoro, com’è secondo la più rigorosa tradizione scientifica tedesca, presenta un imponente apparato di fonti, compresi molti scritti inediti di Rudi Dutschke, detto “il Rosso”, dal 1967 a “capo” della rivolta studentesca tedesca. Landois, dando ancor più spessore alla provocazione lanciata da Aly, indaga esaurientemente il retroterra di idee e teorie diventate patrimonio dei sessantottini, individuando affinità sostanziali con il pensiero politico di Carl Schmitt, dimostrando dunque come il “movimento” sia stato tutt’altro che un semplice “evento eruttivo”. Confrontandosi in particolare con gli scritti di Dutschke, se è vero che Schmitt non è espressamente citato in nessuno di essi, è tuttavia sorprendente quanto le idee e le teorie relative alla società e allo Stato siano molto simili. Tanto che Landois definisce i due “fratelli nello spirito”. Di particolare interesse, nelle pagine di Landois, è la ricostruzione della posizione nazionalista di Dutschke, che era nato nella DDR da famiglia contadina e cristiano-protestante, e che dopo aver contestato il regime tedesco orientale trovò rifugio a Berlino Ovest appena tre giorni prima dell’erezione del Muro.
Pur partendo da presupposti differenti (le sue posizioni antiamericane e anti-NATO), il “Rosso” infatti, circa l’idea di “nazione” finì con l’essere molto vicino alle posizioni dei cosiddetti intellettuali “konservativ” alla Schmitt. “L’intreccio delle nazioni nel processo internazionale di produzione capitalistica”, scriveva Dutschke nel 1973, “non ha eliminato la sostanza storica nazionale. Questo vale in particolare per il nostro Paese, per la riunificazione socialista; un compito che sarà sempre più affidato alla classe operaia della DDR e della BRD.” Una, per certi versi sorprendente, aspirazione alla riunificazione tedesca, questa, fondata sull’antiamericanismo, ma anche su un forte sentimento antirusso (e quindi anti-DDR). La Berlino divisa in quattro zone d’occupazione era per Dutschke il “laboratorio” dove sperimentare un nuovo modello d’unità nazionale, doveva diventare una sorta di “repubblica”, esempio di democrazia diretta ed emancipazione. Nella definizione di “sostanza storica nazionale”, accostata al presunto ruolo decisivo che avrebbe dovuto giocare la “classe operaia”, osserva Landois, si celava il tratto, più o meno evidente, di un’eredità che molto aveva a che fare con le teorie della cosiddetta “rivoluzione conservatrice” degli anni Venti e Trenta del Novecento. Un accostamento che diviene ancor più evidente nell’esito “terroristico” e autodistruttivo di quella rivolta che nel ’68 si era presentata come movimento antiautoritario: “Come già la rivoluzione conservatrice degli anni ’20 e ’30”, conclude Landois, “i sessantottini, con la loro protesta, non hanno solo descritto la decadenza e il pessimismo culturale, ma li hanno indirettamente sollecitati, così che la loro critica all’idea di illuminismo e di ragione poté essere male interpretata e strumentalizzata come una ‘nuova’ e ‘moderna barbarie’”, fino a trasformarsi da “controcultura” in “industria culturale”. Molti hanno pagato quella trasformazione con la propria vita (gli stessi terroristi della RAF e le loro vittime). Altri, perfettamente omologatisi a quell’industria culturale, diventata nel frattempo dominante, hanno costruito su quel “nichilismo” la propria fortuna.