Etica e politica. La lezione di via Rasella

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Etica e politica. La lezione di via Rasella

10 Agosto 2007

Nelle mie lezioni di Storia del pensiero
politico, per spiegare la differenza tra etica, politica e diritto,
ricorro spesso al caso di Via Rasella. A mio avviso, quell’attentato fu
politicamente un gravissimo errore, giacché i leader di un governo o di movimento
dovrebbero ispirare la loro condotta alla weberiana “etica della responsabilità”,
per la quale è giusta l’azione che contribuisce a fare star meglio la comunità
mentre è ingiusta quella che la fa stare peggio; ma fu anche un errore sotto il
profilo morale, giacché non si può programmare un attentato allo scopo di
scatenare una rappresaglia feroce atta a risvegliare l’assopita coscienza
morale dei propri concittadini – è la logica di Hamas o dei talebani, non può
essere quella di una nazione civile. E tuttavia, avvertivo i miei studenti, se
qualcuno volesse portare sul banco degli accusati Rosario Bentivegna – il
gappista di Via Rasella – mostrerebbe di confondere il piano della politica e
della morale con quello del diritto che è altra e diversa cosa. Si può
criticare il Bentivegna, anche con parole durissime e paragoni impropri, non lo%0D
si può condannare come un qualsiasi delinquente giacché a motivarne il gesto
non è stato un interesse privato ma la dedizione al dovere, la ferma
determinazione a combattere, in tutti i modi possibili, i nemici della patria
italiana e della libertà dei popoli.

C’è una
massima antica che dice “a mali estremi, estremi rimedi”. Per i teorici della ragion
di Stato nulla di più scontato:
nello stato di natura, qualsiasi mezzo è buono se risulta efficace, se serve
cioè a salvare una comunità politica minacciata di estinzione – dove “stato di
natura” è sia il conflitto mortale tra entità sovrane (gli stati), sia la “guerra
civile” in cui una determinata società può essere precipitata. In questi
frangenti, però, chi decide quali sono gli “estremi rimedi” appropriati per
ristabilire l’ordine sociale (quell’ordine senza il quale non c’è né diritto,
né tribunale) se non il “politico” ovvero colui che, legittimato o no dalle
leggi fondamentali dello Stato, si mette al timone della nave e impiega ogni
tipo di risorsa per evitare che le tempeste della storia la facciano
naufragare?

Sganciando le
bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, gli americani ritenevano di salvare la
vita – con quel monito terribile e agghiacciante – di almeno un milione di
combattenti del Pacifico. Il loro calcolo era fondato o no? Per rispondere alla
domanda bisogna essere storici, sociologi, statistici, ricorrere ad approcci
comparativi, a sequenze fattuali, alle varie leggi della psicologia sociale,
alla teoria dei giochi e quant’altro. Tutte cose fragili (sotto il profilo
della verificabilità scientifica) che troveranno sempre gli esperti divisi. Ma
ammesso pure che il calcolo americano fosse corretto sotto il profilo tecnico –
il raggiungimento dello scopo, la fine della guerra, era garantito solo dall’escalation atomica – resterebbe sempre
la questione morale: è lecito sacrificare trecentomila civili giapponesi per
far “tornare a casa” i “nostri figli” sotto le armi? Sono domande che non si
possono porre a un tribunale: se ciò fosse possibile o lecito, non ci sarebbe
alcun bisogno della “politica” giacché basterebbe affidare ai magistrati il
compito di stabilire che cosa è giusto o opportuno fare in determinate circostanze
drammatiche (e,alla lunga, nella stessa gestione del quotidiano).

Il
bombardamento di Hiroshima e Nagasaki è stato un atto di barbarie o una “tragica necessità”? Gli uomini continueranno a discuterne per secoli così come
storici, filosofi, moralisti, religiosi continueranno a dividersi
sull’attentato di Via Rasella. Si tratta di una civile acquisizione di senso
comune che la recente sentenza della Corte di Cassazione ,che condanna “Il
Giornale” allora diretto da Vittorio Feltri, per gli articoli dedicati a quella
pagina buia della Resistenza, in sostanza, mette in crisi. Al giornalista
Francobaldo Chiocci non era lecito paragonare Bentivegna a Priebke, nè
condannare gli “atti di sabotaggio, le requisizioni e ogni altra operazione
compiuta dai patrioti per la necessità di lotta contro i tedeschi e i fascisti
durante l’occupazione nemica”.

A ben
riflettere, siamo dinanzi a uno dei più gravi attentati alla liberà di
coscienza e di parola che potessero immaginarsi in una società aperta e
tollerante come la nostra. E’ l’ennesimo indizio che , nella società
contemporanea, si va perdendo irrimediabilmente il senso della politica come
dimensione autonoma (e tragica perchè non garantita né da Dio, né dalla
Ragione, né dalla Storia) dell’esistenza, irriducibile alla morale, al diritto,
all’economia. Sennonché la giuridicizzazione (o l’eticizzazione) della politica
non porterà al “trionfo del diritto” ma al trionfo di una politica particolare
camuffata da diritto e, nel caso italiano, a “costituzionalizzare” e a rendere
verità indiscutibili i giudizi degli storici aderenti a quella che Renzo De
Felice chiamava la “vulgata antifascista”.

E allora, si
dirà, lasceremo impuniti i criminali di guerra, quelli che hanno commesso abusi
di ogni genere, stuprato, violentato, massacrato?

Mi si
consenta un altro esempio non meno significativo. Un liberale ai tempi di
Pinochet si sarebbe dato alla macchia o sarebbe emigrato negli Stati Uniti giacché
il modo cileno di “riportare l’ordine” sacrificava idealità etico-politiche
assai più importanti della cessazione della “guerra civile”. La politica feroce
della giunta militare, per stroncare l’hobbesiano “Behemoth” –  il mostro della guerra intestina – e ,quindi,
per “salvare” il Cile, calpestava i più elementari diritti individuali – un
fatto intollerabile per un autentico liberale disposto a sopportare, per un
tempo indefinito, anche una situazione di anarchia ma non a chiudere gli occhi
dinanzi ai massacri dello stadio di Santiago. Non pertanto, però, gli sarebbe
stato lecito assimilare Totò Riina a Pinochet giacché la “spietatezza” dell’uno
intendeva preservare l’unità e l’integrità della nazione laddove quella
dell’altro era solo espressione di familismo e di prepotenza mafiosa.

Il boss
siciliano va trattato come un criminale – e portato davanti ai giudici – mentre il generale golpista va trattato come
un nemico, che, non si processa ma si passa per le armi o si condanna all’esilio
perpetuo o, al limite, si risparmia, una volta disarmato e reso innocuo.

Nel pluralismo liberale c’è posto per tutti i
valori, anche per la vendetta (il rapimento e l’esecuzione di Eichmann ne sono
stati un caso paradigmatico – e personalmente, ho condiviso l’accanimento di
Simon Wiesenthal e del governo israeliano, assai meno il processo) ma non c’è
posto per un diritto che pretenda di ridurre alle sue misure tutti i rapporti
umani –  né tanto meno per giudici che si
fanno storici, moralisti, sociologi etc. Specialmente se una giuria pretende di
rifarsi agli sbandierati “principi democratici” che, “presi sul serio”
comporterebbero la delegittimazione del 98% degli stati dell’ONU e la
costituzione, per via dell’imponente mole di lavoro, di “tribunali telematici”,
eredi non improbabili delle vecchie “ghigliottine a vapore”!