Europa e Stati Uniti dopo l’11 Settembre

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Europa e Stati Uniti dopo l’11 Settembre

Europa e Stati Uniti dopo l’11 Settembre

10 Settembre 2011

Introduzione

Non è compito semplice affrontare il tema dell’evoluzione nei rapporti tra l’Europa e gli Stati Uniti dall’11 settembre ad oggi. Uno degli attori presi in considerazione – gli Stati Uniti – risulta più facilmente identificabile, quanto meno ove ci si limiti a far riferimento alle amministrazioni succedutesi a Washington in questo decennio, all’opinione pubblica americana e alle posizioni espresse da alcuni rappresentanti del mondo intellettuale e accademico. Ben più complesso è al contrario il cercare di definire l’attore rappresentato dall’Europa perché se in via teorica sarebbe possibile concentrare l’attenzione sull’Unione europea, ma anche in tal caso non si dovrebbero trascurare le sue varie articolazioni (Commissione, Parlamento, Consiglio, ecc.), in realtà si finirebbe spesso con l’avere a che fare con dichiarazioni ufficiali spesso caute, se non anodine, risultato di elaborate mediazioni e risulterebbe difficile considerare queste prese di posizione il vero atteggiamento dell’Europa nei confronti di quanto accaduto l’11 settembre e delle sue conseguenze. 

Sarebbe quindi necessario tenere conto della realtà rappresentata dai singoli Stati europei, dai loro governi, dalle loro opinioni pubbliche, dagli attori non governativi, senza trascurare l’articolarsi fra gli stessi stati membri dell’Ue di “relazioni speciali”, di accordi particolari e di ulteriori legami con organizzazioni internazionali, quali ad esempio l’Alleanza atlantica, di cui però non tutti gli Stati europei fanno parte. È evidente che una realtà talmente complessa e variegata e che può spaziare dalla Finlandia a Cipro, dalla Polonia al Portogallo, richiederebbe ben più, sia in termini di ricerca che in quelli di spazio, di quanto richiesto per un articolo. Il presente contributo non mira quindi, né potrebbe essere diversamente, ad esaminare in dettaglio tutti gli aspetti – politico-diplomatici, culturali, ecc. – di un rapporto in cui – come indicato – sono presenti e attivi attori e dinamiche fra loro molto diversi.

L’obiettivo più modesto è quello di proporre alcune considerazioni, che rivestono un carattere di prima riflessione, su come l’11 settembre e, soprattutto, i successivi eventi internazionali legati a tale evento siano stati recepiti in Europa e abbiano influito sulle relazioni euroamericane; ciò anche alla luce delle numerose interpretazioni di carattere accademico, politico o giornalistico che nell’ultimo decennio hanno trovato espressione in formule ricorrenti: dall’’Atlantico più largo’ alla ‘crisi’, se non persino alla “fine” del rapporto di alleanza che, per circa mezzo secolo, ha legato gli Stati Uniti e l’Europa occidentale e che dopo la caduta del muro di Berlino e la dissoluzione dell’Unione Sovietica, sembrava essersi allargato, per quanto in maniera diversa a un rapporto tra Washington e tutto il continente europeo (1)“Siamo tutti americani”? All’indomani dell’attacco terroristico portato alle Twin Towers di New York e al Pentagono a Washington, i direttori di due quotidiani europei, il «Corriere della Sera» e «Le Monde», decidevano di pubblicare due articoli di fondo con lo stesso titolo: Siamo tutti americani. Come era ovvio, intenzione dei responsabili delle due testate era dimostrare la piena solidarietà, non solo dei governi, ma della opinione pubblica europea nel suo complesso, nei riguardi del popolo americano (2).

Le espressioni di Ferruccio De Bortoli e di Jean-Marie Colombani sembravano riflettere nel settembre del 2001 i sentimenti della grande maggioranza degli europei, nonché dei loro governi. Tali sentimenti parvero trovare espressione in varie manifestazioni svoltesi in tutto il vecchio continente a favore degli Stati Uniti e a condanna del terrorismo (3). Se il mondo occidentale era parso condividere lo sgomento dei cittadini americani di fronte all’11 settembre, ben diverse erano state le reazioni in altre parti del mondo, in particolare nelle nazioni islamiche dove l’atteggiamento nei confronti di quanto accaduto si era espresso attraverso l’indifferenza o in alcuni casi con il sostegno o il giubilo per l’azione terroristica, vista come la giusta reazione al tradizionale appoggio degli Stati Uniti a Israele e alla consolidata presenza americana in Medio Oriente, sovente vissuta come una intollerabile ingerenza. Né in alcuni paesi di questa parte del mondo si poteva dimenticare come soli dieci anni prima Washington avesse condotto una guerra contro uno dei più importanti paesi arabi, l’Iraq, per quanto in apparenza a sostegno dell’indipendenza di un altro Stato della regione, il Kuwait, e con il consenso della comunità internazionale (4).

Gli stessi media europei occidentali presentavano l’attacco terroristico come l’espressione di uno scontro in cui gli Stati Uniti erano divenuti il bersaglio privilegiato quali “unica” superpotenza rimasta e massimi rappresentanti di quell’Occidente che negli anni immediatamente precedenti aveva “vinto” la guerra fredda, nonché interpreti di una volontà di proporre – o imporre – un nuovo ordine internazionale, fondato sulla vittoria della “democrazia liberale”, del “libero mercato” e della “globalizzazione”. Non a caso nel periodo immediatamente successivo all’attentato veniva riscoperto lo studio di Samuel P. Huntington, The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, che sin dagli anni Novanta sembrava aver previsto un sistema internazionale post guerra fredda caratterizzato da elementi di conflitto fa diverse “civiltà” e in tale ambito aveva individuato come probabile uno scontro fra Islam e Occidente (5)

Non vi è quindi da stupirsi se nel volgere di breve tempo anche in Europa, per quanto in settori ancora minoritari, si affacciassero le prime voci dissidenti, non a proposito dell’azione terroristica, ovviamente condannata, ma nei confronti delle possibili reazioni dell’amministrazione Bush e delle cause “profonde” di quanto accaduto l’11 settembre (6). Né si trattava solo di mere valutazioni divergenti circa la situazione in Medio Oriente determinate da una precisa contingenza, perché queste reazioni riflettevano una fase complessa nell’atteggiamento europeo verso gli Stati Uniti e nelle relazioni euroamericane. Da un lato sin dalla fine degli anni Novanta si era venuto formando un forte movimento di protesta contro la globalizzazione, che aveva il suo epicentro e i suoi punti di forza in Nord America e in alcuni paesi europei; tale movimento aveva individuato negli Stati Uniti i massimi responsabili della diffusione del modello capitalistico su scala globale e delle sue negative conseguenze, in particolare sulle nazioni più povere (7).

Non va inoltre trascurato come George W. Bush fosse giunto alla Casa Bianca solo attraverso un’elezione, i cui risultati erano stati fortemente contestati; ciò aveva lasciato in numerosi ambienti europei perplessità, se non un’impressione negativa circa il modo in cui il nuovo presidente era stato eletto, nonché sulle sue capacità e sul suo entourage. Tale atteggiamento contrastava inoltre con le valutazioni positive e i sentimenti sostanzialmente favorevoli nutriti da ampi settori dei media e delle opinioni pubbliche in Europa nei riguardi del suo predecessore, Bill Clinton. Va infine notato come gli attentati dell’11 settembre si collocassero per l’Europa comunitaria in un momento particolarmente delicato. L’incapacità mostrata dall’Unione europea di affrontare e risolvere in maniera autonoma la crisi della ex Jugoslavia aveva segnato il sostanziale fallimento della Pesc e dell’aspirazione, manifestatasi con Maastricht, a trasformare l’Ue in un efficace attore in grado di agire sullo scenario internazionale (8).

L’apparente soluzione della crisi del Kosovo avvenuta solo grazie all’intervento di Washington e della Nato aveva lasciato un profondo senso di frustrazione in vari ambienti europei e un sotterraneo desiderio di rivalsa nei confronti di un alleato ingombrante quali gli Stati Uniti. Inoltre, nonostante fossero trascorsi più di dieci anni dalla caduta del muro di Berlino, le nazioni che avevano fatto parte del blocco sovietico e che avevano immediatamente richiesto di aderire all’Unione europea, non avevano ancora vista esaudita la loro richiesta, che si era scontrata con la cautela di gran parte degli Stati membri e della Commissione (9). Al contrario tre di essi, Polonia, Ungheria e Cecoslovacchia, su prevalente iniziativa dell’amministrazione Clinton, erano già entrati a far parte dell’Alleanza atlantica (10). Ancora una volta nel contesto europeo Washington aveva dimostrato maggiore efficacia rispetto a Bruxelles.

Certo l’euro, uno degli obiettivi finali di Maastricht, sarebbe entrato in circolazione a partire dal 1° gennaio del 2002, ma era difficile prevedere quali sarebbero stati i risultati di tale scelta. Sin dagli anni Novanta, però, numerosi ambienti economici e politici americani avevano espresso scetticismo, se non ostilità, nei riguardi della nuova moneta europea, che veniva spesso considerata una sfida al ruolo svolto dal dollaro come valuta internazionale di riferimento (11). La solidarietà mostrata dall’opinione europea nei confronti degli Stati Uniti prese quindi a scemare fin dalla fine del 2001 quando l’amministrazione Bush decise di lanciare una campagna militare contro il regime talebano al potere in Afghanistan. Sebbene l’operazione parve concludersi positivamente agli inizi del 2002 con la caduta del governo che aveva favorito l’azione di Osama Bin Laden e l’iniziativa statunitense avesse raccolto, almeno in apparenza, il sostegno di gran parte del mondo occidentale, ci si cominciò a interrogare sui reali obiettivi della leadership americana.

Da un lato si notava come nella lotta contro il terrorismo l’amministrazione Bush mostrasse scarso interesse verso gli alleati europei, dall’altro si cominciò a prestare maggiore attenzione alle prese di posizione, non solo di esponenti del governo americano, ma anche agli scritti, in alcuni casi precedenti l’11 settembre, di una serie di intellettuali americani, rapidamente e forse un poco generi-camente riuniti nella definizione di “neocon”, i quali avevano indicato la necessità per gli Stati Uniti di perseguire una politica estera assertiva e interventista, fondata, ove necessario, sull’uso dello strumento militare, con caratteri prevalentemente unilaterali e fondata sulla ferma convinzione nella supremazia dei valori americani.

È probabile che questa rappresentazione del pensiero “neocon” risulti rozza e imprecisa, ma in tale modo venne interpretata da numerosi europei. È comunque innegabile che fin dall’inizio nella visione del ruolo internazionale degli Stati Uniti proposto da vari esponenti “neocon”, vi fosse ben poco spazio per gli alleati europei, se non nella misura in cui questi avessero accettato di allinearsi alle scelte statunitensi, persino la stessa Alleanza atlantica appariva secondaria nelle posizioni espresse da queste personalità, nonché dalla stessa amministrazione (12). Fin dal 2002 dunque nei media europei cominciò ad affiorare la sensazione che, a dispetto dell’apparente solidarietà manifestatasi subito dopo l’11 settembre, i rapporti transatlantici stessero deteriorandosi in maniera sempre più rapida e che gli attentati terroristici fossero divenuti un mero pretesto per confermare, anzi per rafforzare e imporre, il ruolo egemone degli Stati Uniti (13)

Le sensazioni sembrarono divenire realtà con il presentarsi della prospettiva di una guerra contro l’Iraq. In tale contesto, sul piano del dibattito intellettuale e giornalistico, particolare rilievo ebbe in Europa la pubblicazione in quel periodo ad opera di uno dei più conosciuti esponenti “neoconservatori” americani, Robert Kagan, del saggio Of Paradise and Power. Al di là della nota definizione circa la provenienza degli americani da Marte e degli europei da Venere, nel breve volume di Kagan vi erano altre significative considerazioni circa le relazioni transatlantiche. L’autore sosteneva ad esempio che nel corso degli anni Novanta l’Europa si era indebolita, contraddicendo una convinzione largamente diffusa nel continente, nonché un pilastro del pensiero europeista, che aveva visto in Maastricht una pietra miliare nel processo di unificazione del continente. Quanto alle reazioni europee all’11 settembre, Kagan scriveva che gli "europei non hanno mai creduto fino in fondo di essere nel mirino" del terrorismo (14) e giungeva ad affermare che "la potenza militare degli Stati Uniti e la volontà di esercitarla – se necessario anche unilateralmente – costituiscono una minaccia per il nuovo spirito missionario europeo. Forse la minaccia peggiore. […] L’intervento americano (in Iraq), anche se vittorioso, rappresenta un attacco all’essenza dell’Europa ‘postmoderna’, ai suoi nuovi ideali; è la negazione della loro validità universale, per le stesse ragioni per cui le monarchie dell’Europa del Sette-Ottocento, costituivano un attacco agli ideali repubblicani dell’America" (15)

Non vi è da stupirsi se, di fronte a queste prese di posizione, in Europa l’opinione pubblica accantonasse ciò che era stato provato nei confronti degli Stati Uniti con l’11 settembre e vi fosse chi giungeva a porre seriamente in discussione persino i caratteri e gli autori degli attentati. Nel 2002, ad esempio, un giornalista francese, Thierry Meyssan, pubblicava un volume, nel quale si sosteneva come le azioni terroristiche del settembre 2001, in particolare quella contro il Pentagono, fossero una montatura, opera con tutta probabilità dei servizi segreti americani (16).

Al di là delle tesi sostenute e del fatto che esse trovassero credito, il libro riscuoteva in Francia un ampio successo di pubblico e apriva la via all’ipotesi nutrita da molti nel vecchio continente di un fenomeno terroristico frutto di un complotto alle cui origini vi sarebbero stati settori dell’establishment statunitense, quando non la stessa amministrazione americana (17). Né certo favorivano le tesi dell’amministrazioni Bush le rivelazioni circa i rapporti intrattenuti dalla Cia sin dall’invasione sovietica in Afghanistan con i movimenti fondamentalisti islamici locali, che erano stati sostenuti e aiutati da Washington in funzione anticomunista; sorgevano quindi ovvi interrogativi sulla posizione dei servizi segreti statunitensi e la loro incapacità di prevenire gli attentati dell’11 settembre a dispetto della conoscenza delle posizioni dei Talebani(18).

(…)

Continua a leggere l’articolo sul sito di Ventunesimo Secolo, rivista di Studi sulle transizioni.

Tratto da 11 Settembre. 10 anni dopo, Ventunesimo Secolo – Rivista di Studi sulle transizioni, Anno X, Numero 25, Giugno 2011. Tutti i diritti riservati

 

[1] Ad ogni modo per una visione complessiva del rapporto transatlantico cfr. M. Del Pero, F. Romero (a cura di), Le crisi transatlantiche. Continuità e trasformazioni, Edizioni di storia e letteratura, Roma 2007. Per una recente analisi cfr. G. Mammarella, Europa e Stati Uniti dopo la guerra fredda, il Mulino, Bologna 2010. Una prospettiva circa il futuro in A. M. Dorman, J. P. Kaufman (eds), The Future of Transatlantic Relations. Perceptions, Policy and Practice, Stanford University Press, Stanford 2011.

[2] F. De Bortoli, Siamo tutti americani, «Corriere della Sera», 12 settembre 2001.; J.- M. Colombani, Nous sommes tous américains, «Le Monde», 12 settembre 2001.

 [3] Cfr. A. Altichieri, Da Londra a Parigi, da Belfast a Mosca in 800 milioni uniti “contro il male”, «Corriere della Sera», 15 settembre 2001.

[4] Cfr. F. Romero, R. Guolo, America/Islam. E adesso?, Donzelli, Roma 2003.

[5] S. P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 2006. Il testo veniva pubblicato in Italia nel 2000 e registrava sino al 2006 ben sette ristampe, di cui ben cinque tra il 2000 e il 2004. Per le valutazioni dell’autore circa il contrasto tra Occidente e mondo islamico, cfr. in particolare pp. 306-319. Su questo aspetto Huntigton riprendeva in parte le osservazioni di vari studi di Bernard Lewis; cfr. B. Lewis, Le origini della rabbia musulmana. Millecinquecento anni di scontro tra Islam e Occidente, Mondadori, Milano 2009. È significativo come il titolo originale avesse un carattere ben più neutro e accademico: From Babel to Dragomans, Oxford University Press, Oxford 2004. L’Europa e gli Stati Uniti dopo l’11 settembre

[6] Per limitare l’analisi al mondo politico italiano cfr. ad esempio F. Alberti e G. Fregonara, Guerra, sostegno agli Stati Uniti tra mille dubbi, «Corriere della Sera», 15 settembre 2001.

[7] Basti pensare alla contestazione in occasione del G-7 di Seattle del 1999 e al grande successo del volume di Naomi Klein, apparso nel 2000; cfr. l’edizione italiana N. Klein, No Logo, Baldini e Castoldi, Milano 2001.

[8] Cfr. ad esempio J. Pirjervec, Le guerre jugoslave 1991-1999, Einaudi, Torino 2001 e sul Kosovo A. J. Bacevich, E. A. Cohen (eds), War Over Kosovo: politics and strategy in a Global Age, Columbia University Press, New York 2001.

[9] Sull’allargamento cfr. R. Scartezzini, J. O. Milanese (eds), L’allargamento dell’UE nello scenario geo-politico europeo, Franco Angeli, Milano 2005; F. Carlucci, F. Cavone, La Grande Europa. Allargamento, integrazione, sviluppo, Franco Angeli, Milano 2004; L. Mattina (ed.), La sfida dell’allargamento. L’Unione europea e la democratizzazione dell’Europa centro-orientale, il Mulino, Bologna 2004.

[10] Cfr. R. Menotti, Mediatori in armi: l’allargamento della NATO e la politica USA in Europa, Guerini, Milano 1999 e in generale cfr. L. S. Kaplan, NATO Divided NATO United. The Evolution o fan Alliance, Prager, Westport 2004.

[11] G. Borgognone, Superpower Europe? Interpretazioni statunitensi del “sogno europeo”, Giuffrè, Milano 2010, pp. 191-200.

[12] Sulle posizioni di alcuni esponenti “neocon” cfr. I. Stelzer (ed.), The Neocon Reader, Grover Press, New York 2004. Per un’analisi della posizione dei “neo conservatori” verso l’Europa, della complessità del fenomeno e delle sue radici si rinvia a M. Del Pero, «I neoconservatori e l’Europa», in G. Vacca (a cura di), Il dilemma euroatlantico. Rapporto 2004 della Fondazione Istituto Gramsci sull’integrazione europea, Dedalo, Bari 2004, pp. 87-120.

[13] In proposito cfr. M. Cox, «Gli europei vengono da Venere e gli americani da Marte? Le relazioni transatlantiche dall’11 settembre all’Iraq», in G. Vacca (a cura di), Il dilemma euroatlantico, cit., pp. 31-62.

[14] R. Kagan, Paradiso e potere. America ed Europa nel nuovo ordine mondiale, Mondadori, Milano 2004, p. 40.

[15] Ivi, p. 68.

[16] T. Meyssan, 11 septembre 2001, l’effroyable imposture, Carnot, Paris 2002. Il volume di Meyssan veniva tradotto in italiano e pubblicato dalla casa editrice Fandango di Roma.

[17] P. Rigoulot, L’antiaméricasnisme. Critrique d’un pret-à-penser rétrograde et chauvin, Robert Laffont, Paris 2004, pp. 210-214.

[18] Cfr. S. Coll, Ghost Wars. The Secret History of the CIA, Afghanistan and Bin Laden, from Soviet Invasion to September 10, Penguin, New York 2004. Su Bin Laden e la genesi dell’11 settembre cfr. L. Wright, Le altissime torri. Come Al-Qaeda giunse all’11 settembre, Adelphi, Milano 2007.