Exit strategy da Mare Nostrum, “entry strategy” in Libia
12 Giugno 2014
Mare Nostrum va chiusa trasformata, superata. A leggere le diverse mozioni discusse in Parlamento sulla operazione militare e umanitaria voluta dal Governo Letta si capisce che pur con gradazioni diverse l’Italia intende ripensare il suo intervento unilaterale a protezione dei confini meridionali della Ue.
Sono state salvate migliaia di vite umane, arrestati scafisti a decine, onorato l’impegno preso con l’Europa dopo la Strage di Lampedusa. Ma entro la Primavera del 2014 Bruxelles avrebbe dovuto rafforzare i sistemi di controllo delle frontiere, Frontex ed Eurosur, per non lasciare sole Italia e Libia nella gestione del fenomeno migratorio: invece siamo a giugno e i Paesi europei all’ultimo vertice in Lussemburgo sembrano caduti dalle nuvole rispetto agli obblighi presi solennemente da Barroso l’anno scorso.
L’attenzione si è spostata sui confini orientali e sulla crisi in Ucraina, è vero. Il nostro governo si prepara a guidare il semestre europeo e né a Bruxelles né alle Nazioni Unite le richieste fatte da Roma sulla emergenza immigrazione sembrano trovare la giusta udienza, nonostante l’Italia sia un importante contributore all’Onu come della Ue. Aggiungiamo che ci vorrà tempo prima che si insedino la nuova Commissione europea e il nuovo Alto rappresentante per la politica estera e si capisce che sul breve periodo non è il caso di farsi troppe illusioni sull’effettivo apporto europeo nella stabilizzazione libica, primo passo per mettere sotto controllo i flussi di clandestini verso le coste della Sicilia.
Serve quindi una "exit strategy" da Mare Nostrum che capitalizzi i risultati ottenuti dalla operazione – abbiamo dimostrato ancora una volta a livello internazionale che il nostro Paese sa svolgere missioni umanitarie complesse – gettando le basi per una "entrance strategy" in Libia.
La proposta fatta a suo tempo dal ministro Alfano, ‘piantare le tende’ in Africa per governare meglio l’entrata dei profughi e richiedenti asilo in Europa, è stata giudicata positivamente dal consiglio europeo e in forme diverse la ritroviamo enucleata nella maggior parte delle mozioni presentate dalle forze politiche nella discussione sul dopo Mare Nostrum. Ma per darle concretezza occorre unità d’intenti a livello nazionale, per pesare di più all’estero e rivendicare una "fase due" più collaborativa e ambiziosa.
Sappiamo infatti che la situazione in Libia è assolutamente fluida e gravida di rischi: in mancanza dei caschi blu onusiani o di un rafforzamento militare di Eubam Libya, l’unica strada percorribile è che l’Italia si metta alla guida di un gruppo di "Volenterosi" (il modello potrebbe essere il V4, sempre in ambito Ue) che insieme all’alleato americano favoriscano i processi di state building nel Paese africano.
Tanto più che dopo la sentenza della alta corte libica la Fratellanza Musulmana sembra uscire ridimensionata nello scontro tra fazioni e milizie, mentre nell’est del paese il Generale Hifter spalleggiato dagli USA e militarmente dall’Egitto continua la sua campagna personale contro i santuari jihadisti. Appare evidente allora come la vicenda degli sbarchi in Italia sia collegata a complessi scenari geopolitici che non riguardano solo il nostro Paese e le sue beghe post-elettorali.
Mare Nostrum non è stata un fallimento rispetto agli obiettivi della missione, anzi, possiamo andarne fieri. Chi la disprezza parlando di "taxi" per gli immigrati o auspicando nuovi respingimenti, dimentica che abbiamo tenuto per troppo tempo gli occhi chiusi su come Gheddafi ‘risolveva’ il problema della immigrazione (con annessi costi e odiosi balzelli per il nostro Paese), come pure passa sopra alle condanne inflitte delle corti europee all’Italia con tanto di ricaduta nelle tasche dei contribuenti.
La verità è che Mare Nostrum diventerà un fallimento se la comunità internazionale abbandonerà di nuovo la Libia a se stessa.